Capitolo 28.2

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Si sostiene che l'infiorescenza di un Argemone, una rarità di papavero, non si trovi nemmeno nella terra più fertile e ospitale. Mi chiedo se sia possibile che siano le sue foglie lanceolate, quelle che vedo freddate senza tempo, nella piantagione di ghiaccio da cui ti sei voltato.

La prima casa di Piazza Mino che ci ritrovammo davanti alla discesa, era stata riverniciata con un rosso antico e pericoloso, il colore del Sangue di Drago, di quella resina estratta dalle cortecce di alcune palme in un ventoso oltreoceano.

Non mi ero ancora soffermata sulla sua muratura così, come se ne fossi incatenata, ma adesso Elias era accostato alla sua facciata, lo sguardo consumato da una profondità annientante, a domandami se volessi arrendermi allo scarlatto di quel suo battito e fuoco di creatura mitologica liberata, oppure continuare a difenderci entrambi.

Era una scelta che avevo, che il ragazzo non mi stava togliendo, nonostante la disparità delle nostre posizioni, ma che difficilmente non avrebbe leso qualcosa di me.

«Io non abito qui», lo informai, in un filo di voce e irriverente sincerità, mentre mi sacrificavo ai suoi occhi di argento ossidato, avvicinandomi per far passare alcune persone scese dalla vettura, ormai ripartita per la rimessa.

«E dove, allora?»

Rimase a fissarmi in attesa, gentilmente composto, ardentemente aggressivo, mentre dalla sua espressione riuscivo a intuire una scala di pensieri altalenanti su cui la sua mente, precaria, si stava muovendo.

«Qualche fermata indietro», ammisi, debole come la luce della luna cuoriforme, spaccata a metà sopra di noi, e il suo fisico sembrò tremare nello sforzo di arginare il suo strabordante flusso di contraddizioni nei canali cementati e interrati di lui.

«Hai... sbagliato di proposito?», si stupì, esteriormente pietrificato, a modellare dal silenzio una risposta che già ero sicura danzasse per lui nel mio sguardo imbarazzato.

«Così pare.»

Sentii le sue dita chiudersi troppo presto intorno alla manica della mia giacca, forza e debolezza, in un minuetto mortale; mi tirò via in un scioccante impeto, per liberare il passaggio a un anziano in bicicletta, portando i miei occhi ancora più vicini alla sua capigliatura nera, tanto che il rosso della parete si sbriciolava adesso nelle sue iridi scure, fiammeggiandole.

«Questo si chiama imbrogliare, sai», asserì, piegando il mento cereo in avanti, come se il mio comportamento inusuale fosse appena diventato uno schiocco tinteggiato di vivaci rossori, e io mi lasciai sconvolgere da una scarica di colpi nel petto. «Forse... per non farmi sapere... in quale via è casa tua?»

Le sue parole, arrochite fino al bisbiglio, erano un'artigliata in grado di aprire quel che era stato della nostra relazione, di far effluire e spurgare le nuance calde e tetre di un Diaspro, sollevato dall'alveo di un fiume di reconditi bisogni.

«O forse per continuare a non finire», riuscii a snodare i miei pensieri per lui, difficoltosamente, uno a uno, sfilandoli in una corda di canapa ancora resistente, ma che il ragazzo aveva la facoltà di strappare.

«Non... finire?» riprese Elias, aspro e allo stesso tempo caramellato, come il frutto più succoso di un albero ombreggiato, addentato da una bocca ingorda che non vedevo. «Non si può evitare di finire, Ester. Nemmeno il vento e i desideri possono essere sempre in tormenta.»

Oscillai, non appena la sua mano alabastrina lasciò andare la presa sulla mia stoffa piegata, e un corno risuonò nei miei timpani una sconfitta dalle tende di velluto del campo di battaglia nei suoi occhi.

Era vero, impietosamente vero, ma avrei voluto lo stesso poter essere una bandita di colori opprimenti, poter rubare quella negatività, quell'Ossidiana Lacrima di Apache che aveva ottenebrato il suo sguardo, e che stava magnetizzando il mio.

«E tu... tu sei ancora... in tormenta?» domandai, il frastuono di colpi contro la gabbia del cuore, le corde vocali come irritate da grappa e arsenico che affievolivano il mio tono, silenziandolo tra le labbra.

«No, io non sono in...» negò, scuotendo con vigore la testa, lasciandomi attendere alcuni secondi, irretito, prima di piegarsi al mio orecchio, la bocca di ghiaccio a espirare contorsioni ammorbidenti di fiato. «Io sono tormenta, Ester, e lo sono in un modo che tu non puoi vedere... che tu non potresti neanche accettare.»

Rabbrividii, la sua voce rassegnata aveva un suono che si arricciava all'aria notturna, la faceva svestire di indecenti note, rievocando un focolare di segreti che crepitava nell'oscurità di un inverno perenne.

«E se ti dicessi...» provai, posando la fronte sul suo giaccone, al centro del suo inaccessibile petto, quasi a volermi scavare un passaggio tra le sue mura, che parevano tanto solide quanto quelle Etrusche che ci chiudevano insieme in Fiesole. «... che lo sono anche io?»

Il sonno come la veglia in un cavalcavia deviato dalla terra, ricalibrato alle stelle, una magia estranea nel corpo, polverizzata fin nelle ossa, una me stessa che non conosco più.

«Lo sai perché alla Bottega si preferisce non trattare i Maggiociondoli?» tirò fuori, in una roca riflessione, mentre le sue mani s'intrufolarono tra noi, fino ad arrivare a pesare sulla cerniera della mia giacca, e a smuoverla con lentezza in basso. «Sono fiori dal giallo vivace... e dal profumo che rallegra la testa...»

«Elias...» Un sussurro coperto dal buio delle sue ampie e grandi spalle, al sentire che il ragazzo mi aveva esposta fino in fondo al freddo, aprendomi alle sue delicate dita riscaldate come Opali di Fuoco. «Cosa...»

«Hanno grappoli pendenti così... definiti...» continuò, salendo fino a sfiorare la curva dei miei seni con i palmi orizzontali, e a sabotarne da solo il tocco, mentre il mio respiro si annullava nelle sue ambigue mani, che prendevano e rigettavano. «Eppure basta un solo seme contenuto nei suoi baccelli per fare una grave ingestione, per avere una mortale intossicazione. Perché i Maggiociondoli fanno questo, Ester. Fanno male.»

Si ritirò da me, alcuni passi indietro, portandomi a seguire il suo sguardo snaturato, dapprima ardito sulle linee femminee della mia maglia, in seguito forzatamente occluso e lontano, già rivolto a un indomani che non ci includeva più come niente, che ci escludeva come ingannevoli Maggiociondoli.

«Sapendo tutto questo, tu... ancora...» proseguì Elias, come se stesse cercando di redimersi, come se non avesse appena disintegrato ogni mio pensiero logico e razionale con un fervore di una malsana apoteosi. «Saresti disposta a trattarli al di fuori della Bottega?»

Sospese, come bolle di sapone soffiate. Non tutte le domande hanno una risposta certa. Non tutte le risposte hanno una domanda certa. Alcune domande e risposte si appartengono così, come le nostre, nell'incertezza, per scoppiare nell'aria.

Arriva la domenica, e arriva pure il nostro aggiornamento! Buonasera a tutti ❤ Siamo tornati dal capolinea, parola che, come piace a me, trattiene più significati

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Arriva la domenica, e arriva pure il nostro aggiornamento! Buonasera a tutti ❤ Siamo tornati dal capolinea, parola che, come piace a me, trattiene più significati. Il capolinea è un punto in cui qualcosa si ferma, e qualcosa d'altro parte. E anche se forse non lo avreste voluto, o forse sì, qualcosa tra Ester ed Elias si è chiuso qui, ma qualcosa si è anche aperto. Mi riferisco al loro modo di interagire, che ha assunto accenti più sensuali e più restrittivi, che danno e tolgono, che tengono in bilico.
Ho usato molte immagini nel testo (spero vi siano piaciute, provo sempre a variarle!) per darvi una ulteriore idea della psicologia di Elias, per farvi trovare tra le righe informazioni che ancora restano misteri, ma che non per questo non sono scolpite nelle righe che avete appena letto. Fatemi sapere le vostre impressioni su di loro e sulla parte nei commenti o messaggi privati, sapete che sentirvi mi fa tanto piacere! A presto :-*

Saiph - La mia stellaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora