Cosa si fa con le critiche e i fallimenti? La limonata!

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Mi viene questa riflessione postuma ai risultati dei Wattys 2020.

No, non ho vinto niente.

Sì, mi bruciano le chiappe.

Mettersi in gioco per qualcosa e fallire non è mai piacevole e neanche semplice da accettare. A meno che non ti freghi una cippa del metterti in gioco in un particolare contesto. Allora è inutile anche cercare di farci sopra un ragionamento. Grazie, ciao.

I Wattys da sempre sono contornati di un'aurea di misticismo e autorevolezza per cui quando uno vince, se la può tirare con la corda. C'ha il bollino con l'autorizzazione, e che cavolo.

Molte storie vincitrici sono oggettivamente molto belle - tanto da minare la mia già fragile autostima, diciamolo. Alcune sono un po' meh, ma può essere che il meh sia semplicemente una questione di gusto personale, su cui non ci si può fare nulla (e quindi no, non è la storia della volpe e dell'uva - se non mi piacciono, possono anche avere sei Pulitzer e scavare le classifiche e non mi frega una cippa - e no, non sono nemmeno invidiosa).

Io mi sono candidata con le mie due storie First e Il libro dei desideri, ben conscia dei limiti di ciascuna. Ovvero:

- First è a mio parere una storia ruspante, con un bel ritmo, ma con una forma (soprattutto ortografica) che è oggettivamente terribile (cosa che mi è stata confermata anche in altre sedi che non fossero la mia scatola cranica).

- Il libro dei desideri è una palla al piede. Il ritmo è letargico; soffre forse in maniera minore dei problemi di forma di First (ma dipende dal capitolo) e, seppure penso che sulla carta abbia delle buone premesse per essere interessante, nella realtà soffre un po' la sindrome dell'esperimento non riuscito.

Sì, sto parlando delle mie storie. Il fatto che le abbia partorite io non significa che il mio giudizio critico sia andato a funghi a riguardo.

Allora, qualcuno più pungente di altri potrebbe dire: ma che cacchio le hai iscritte a fare?

Svariati motivi:

- il mettersi in gioco di cui sopra, appunto;

- la speranza di un karmico colpo di culo che mi desse un riscontro senza dovermi sbattere troppo (ciao, pigrizia, amica mia);

- ogni lasciata è persa.

Ben conscia dei limiti sopra citati, però, non ho potuto non abbandonarmi alla speranza di un risultato scoppiettante, come quando vedi i film di danza e - non avendo mai studiato danza - pensi che sia fattibile che la gente all'esibizione improvvisata a fine film riesca a scatenarsi in numeri pirotecnici senza mai aver provato e soprattutto senza pestarsi neanche una volta i piedi. Praticamente un suspension of disbelief nella vita reale. Che ci volete fare, io ho la testa nelle nuvole e vivo nei libri e nei film, che la vita reale mi stringe un po' sul punto vita.

Quindi, ripigliamo le fila. Pubblicano i risultati e io non vinco una cippa.

La mia parte razionale mi dice, "Embeh, ma che minchia ti aspettavi, testina?"

La mia parte emotiva ci rimane male.

Io, tutta intera, sono nel mezzo.

Combattuta tra la verde invidia per quelli che hanno vinto, e la voglia irrazionale di fare le pulci e trovare errori visibili e invisibili, e la, ben più stringente, necessità di fare autocritica.

Sono sempre stata un po' cazzara. È colpa del primo esame all'università. Fonetica e Fonologia - professore di cui ancora ricordo la faccia tonda e spelacchiata, di cui non farò il nome nemmeno sotto tortura. Mai studiato così tanto per un esame nella mia vita.

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