10. A crazy suicidal head case.

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Sakusa Kiyoomi aveva sempre amato l'arte.
L'aveva sempre amata, in ogni sua sfumatura; dalla scrittura al teatro, dalla scultura alla musica, dalla fotografia alla danza. Sin dal primo momento in cui venne alla sua conoscenza, aveva sempre trovato l'arte... Mozzafiato. Quell'essenza in grado di stravolgere una vita intera, sbaragliando ogni credenza e ogni certezza.

La sua espressione artistica prediletta era il disegno.

Sakusa Kiyoomi non era mai stato un grande amante della Vita. Eppure, in rari, rarissimi casi, accadeva che creasse arte e riuscisse a sentirsi parte integrante di essa. In quei rari, rarissimi casi, i calci violenti della Vita sembravano farsi un tantino più deboli. In quei rari, rarissimi casi, il Tempo sembrava camminare un po' più lentamente e, seppur Kiyoomi non riuscisse comunque a raggiungerlo, sentiva di star annaspando un po' di meno.

L'arte era probabilmente il motivo principale per cui aveva rimandato il proprio suicidio tanto a lungo.
Erano stati quei rari, rarissimi casi in cui non solo Kiyoomi creava arte, ma in cui Kiyoomi era arte, a spingerlo a sopravvivere un po' più a lungo. Come se quei brevi istanti di ossigeno fossero sufficienti a ripagare giornate intere di anidride carbonica. Come se quella fresca ed effimera boccata d'aria fosse sufficiente a fargli trattenere il fiato negli abissi subacquei per ore, ed ore, ed ore, ed ore, ed ore.

Nelle ultime settimane prima della sua morte, Kiyoomi non aveva creato molta arte. E quella poca che aveva creato, non era genuina a sufficienza per accogliere anche lui nel suo mondo idilliaco e privo di sofferenza.
Non vi fu una ragione precisa per cui smise di disegnare, per cui smise di dare vita a figure grigiastre macchiate di grafite e impazienti di esistere: semplicemente, non ne aveva avuto il tempo.

Era troppo impegnato ad annaspare alla ricerca di ossigeno per potersi ricordare che, in certi casi, non è necessario risalire in superficie per respirare, ma è sufficiente girare la manovella della bombola di emergenza che ci portiamo sempre dietro.
Chissà se se l'era portata dietro la bombola, Kiyoomi, il giorno del suo tanto odiato suicidio.
Chissà se l'aveva già usata in precedenza la bombola, Kiyoomi, nella speranza di poter evitare il suo tanto odiato suicidio.
Chissà se l'aveva già esaurita la bombola, Kiyoomi, per ritrovarsi costretto a compiere il suo tanto odiato suicidio.

Fu per questo che quando riprese in mano la matita, quel giorno, in quell'aula di arte e con quello strano e irritante ragazzo al suo fianco, Kiyoomi sentì come se il tempo si fosse fermato. Come se gli istanti in cui la matita scorreva sulla tela per poter abbozzare le sue emozioni si fossero congelati, immobili sulla linea temporale dell'esistenza. Come se, in quel momento, avesse a disposizione tutto il tempo del mondo.

In quelle due, lunghissime ore, il Tempo si fermò.
In quelle due, lunghissime ore, agli occhi di Kiyoomi non esistette altro che arte: solo lui e la tela, esistevano. Ciò che permase attorno a loro non fu neanche in grado di sfiorarlo; non veniva neanche percepito dal ragazzo, né col tatto né con l'udito.
In quelle due, lunghissime ore, Kiyoomi ebbe tutto il tempo per poter liberare la mente e lasciare che le sue emozioni volassero libere sulla tela, non più prigioniere della gabbia costruita dal suo cuore.

Ciò che ne uscì fu una di quelle opere il cui significato non può essere descritto. Solo interpretato, assimilato, adattato alle circostanze e percepito in base alle diverse esperienze provate da ognuno di noi.

Lo sfondo della tela fu lasciato bianco, e in primo piano vi era una sola figura in risalto: un uomo disteso su un bancone di legno d'acero, a braccia distese, secondo una prospettiva in base alla quale noi possiamo vedere solo la cima del capo, le spalle e il resto degli arti superiori. La sua mano sinistra teneva impugnato forse un panno, forse uno straccio, forse addirittura lo stralcio di un lenzuolo - cosa fosse esattamente, lo sapeva solo il suo artista. Il bancone, vagamente ricordante la forma di una bara, poggiava su un pavimento formato da assi di legno spezzate, e su quello che doveva essere il soffitto vi era l'involucro vuoto di una lampadina; oltre alle pale - anch'esse spezzate - di una ventola.
La lampadina vera e propria, completamente integra, fluttuava sopra al viso - che, ricordo, noi non possiamo vedere a causa della posizione supina dell'uomo -, avvolta da un'opaca luce color porpora.
Il cranio dell'uomo era aperto, come se fosse stata tagliata di netto la sua parte superiore, e rivelava le linee abbozzate del suo cervello che, nonostante tutto, non appariva affatto macabro.
I veri protagonisti del dipinto erano, però, i colori che colavano come tempera dal cervello della figura umana: indaco, blu ceruleo, porpora, blu abissale, verde muschio, grigio ardesia, giallo limone, verde smeraldo e rosso marte. Tutti questi sgargianti e vividi colori donavano dinamicità all'intero dipinto, macchie di vita su uno sfondo tanto spento e rovinato. Nel lago di colori che andò a formarsi sulle assi del pavimento sembravano annegare - o riemergere, in base a come lo si voleva interpretare - ulteriori figure: un lucchetto imbrattato di sangue, una malridotta ocarina rossa, dei grattacieli, una casa sull'albero, un moschettone e la rotella di un ingranaggio. Sotto al pavimento fluttuante sbucavano due rubinetti arrugginiti dai quali fuoriuscivano dei rivoli di colore. [*]

THE MIDDLE OF NOWHERE, sakuatsuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora