3)-L'orfanotrofio.

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Natasha's pov

Avevo nove anni. Almeno così mi dicevano. Ormai non sapevo più se credere o no quelle donne.
Ero seduta sul tappetino del salotto facendomi gli affari miei, giocando con dei soldatini di plastica; tutti quei bambini mi guardavano straniti, come sempre. Non davo molto peso alle loro parole, o almeno, è quello che cercavo di fare; ma ogni volta che dicevano qualsiasi cosa sul mio conto, sentivo il mio labbro tremare, stringevo i pugni e lentamente le lacrime scendevano sulle mie gote, e tutti ridevano.

I miei pugni stretti, non mi spingevano a fare altro se non iniziare a picchiare altri bambini, in modo violento, quasi con gusto.

Perché ridevano di me in primo luogo? Davvero non riuscivo a comprenderlo.

Era per i miei occhi? Tirai un pugno ad una bambina dalle trecce bionde, dritto nei denti, tanto sapevo che erano tutti cariati per tutte quelle marmellate ai lamponi che ingeriva giornalmente.
I miei occhi saranno pure diversi, ma erano molto più belli, gli altri avevano occhi noiosi.
Tirai un pugno ad un bambino a cui mancava già qualche dente, quindi sul suo naso. Per caso avevano qualcosa i miei capelli di strano? Sentii un rumore sgradevole, seguito da un suo urlo e del sangue che cominciava a scendere dalle sue narici, entrambe. Due piccioni con una fava.
Non sopportavo sentire le sue urla, mi misi sopra di lui e gli tappai la bocca, cercò di mordermi e così io gli diedi uno schiaffo, e poi un altro.
Ad assistere a quello spettacolo, c'erano solo altri bambini, alcuni erano impauriti, alcuni ridevano, e alcuni fecero una cosa che mi aspettavo, ma che speravo non accadesse: corsero ad avvisare le suore, che al momento stavano facendo lezioni ad altri bambini, credo più grandi di me.

Mi alzai dal bambino e mi diede una gomitata al naso, le mie mani erano sporche di sangue, e adesso anche io con avevo una narice altrettanto sanguinante. Vidi le figure basse e curve delle due suore, con la loro veste nera e bianca, i loro visi ringrinziti e arrabbiati.
Una mi prese per le braccia, e iniziai già a urlare e dimenarmi, l'altra riuscì a prendermi per le gambe, come fossi un agnello pronto ad essere macellato.

Mi portarono lontana da tutti, in una stanza fredda con pareti di legno, e chiusero a chiave la porta, lasciandomi lì dentro senza rivolgermi la parola. Quindi continuai ad urlare a squarciagola, dando continuamente pugni alla porta, non curandomi dei danni che continuava a procurarmi. Diedi anche calci, ma gli unici danni che riuscì a procurare io stessa erano solo qualche graffio o qualche piccolissima crepa. Per quanto riguarda le mie mani, erano ormai sfasciate: sia dalla lotta di prima, sia dalla porta, che dal gelo che mi circondava in quella stanza.

Mi sedetti per terra, spalle alla porta, e mi guardai intorno cercando di osservare con quella poca luce della sera. Non c'erano lampade, la stanza aveva solo una finestra, perché così "entrava la luce divina„ , o almeno così dicevano loro. C'era ovviamente un crocifisso, no, due...anzi, quattro, quattro crocifissi appesi tutti ognuno su una parete della stanza, e dei rosari sparsi per terra, perché non c'era l'ombra di un mobile. Ovviamente, non potevo nemmeno aprire la finestra, dato che quest'ultima aveva una serratura. Rimasi solo lì, in silenzio, a guardare con disgusto tutti quei simboli religiosi in cui non trovavo assolutamente senso. Durante la mensa, non pregavo mai, e spesso per questo fatto mi portavano qui, e mi lasciavano digiuna. Non pregavo prima di addormentarmi, né appena sveglia, come facevano le altre bambine nel dormitorio. E a proposito di dormire, sinceramente non riuscivo a chiudere occhio in quella stanza; Ma guardando il lato positivo, alla fine mi stavano solo abituando al freddo, così da essere più forte. Un po' come quei soldati che vedo spesso passare davanti all'orfanotrofio, loro sì che sicuramente sopportano il freddo: portano una divisa, una divisa stupenda, degli stivali neri o marroni che vorrei anche io, e spesso un colbacco con una bellissima stella rossa al centro, quasi rossa come i miei occhi.

Aspettai fino al mattino, quando poi sentii il rumore della serratura. La suora aprì, e come sempre, mi chiese:

«Spero che con questo il nostro buon Dio abbia riportato un po' di senso in te.»

E preferivo non risponderle, anche perché se lo avessi fatto, mi avrebbe lasciato lì per un altro giorno, e davvero non mi andava. Avevo fame.

Mi diressi verso il salotto, e con mia grande sorpresa, trovai quei soliti bambini che venivano a farci visita ogni tanto. Non erano orfani, non del tutto. Erano quattro bambini in totale; venivano qualche volta per giocare e tenerci compagnia, ma a me interessavano solo due di loro: due bambine, una più grande di me di un anno, e una più piccola di me di un anno.
Erano Hilda Jäger, la più piccola, e Susan Marley Jhonson, la più grande, uniche figlie di Klaus Jäger e Jhon Anderson. Erano gli unici che in passato, con precedenti visite, ebbero mai interagito con la sottoscritta. Entrambi di famiglie parecchio benestanti, ma completamente diverse, sotto molto aspetti. Avevano tutti caratteri parecchio diversi, e la famiglia Jäger è tedesca, mentre la Anderson è americana, non andavano parecchio d'accordo, ma non si odiavano nemmeno.

Susan era seduta su un tavolino colorato, teneva in mano un libro grosso e pesante con una strana copertina tutta blu, e nel frattempo mangiava dei biscotti a forma di animale. Mentre Hilda, seduta affianco a lei, si pettinava la frangetta davanti a uno specchietto che reggeva con la mano non occupata. Mi avvicinai a loro sorridendo, ma solo Marley sembrava non disgustata dalla mia presenza.

«Hi, russian girl. Natasha, right?»

Annuì e le sfoggiai un gran sorriso. Susan stava ancora imparando a parlare meglio la nostra lingua, ma capivo più o meno quello che diceva, altrimenti me lo traduceva Hilda.

«Hallo, guten morgen.»

Le uniche parole che pronunciò con tono acido e rivolte a me al momento, per poi tornare ad essere vanitosa. Nonostante il suo carattere, trovavo Hilda inspiegabilmente carina. E stessa cosa per Susan, ma lei era già più facile da piacere; era sempre così gentile, calma e timida.
Guardai quest'ultima, e con un cenno di capo le chiesi se potessi mangiare uno dei suoi biscotti, e lei sorrise, annuendo.

Allora mi sedetti con loro, prendendo uno dei biscotti, e iniziai a mangiare, guardando prima con curiosità il libro di Susan, e poi di nuovo la bellezza di Hilda: così bella, così acida, così sgorbutica.

«Sai, 'comunista', ho sentito dire che c'è qualcuno che vuole adottarti. Ci sono tante foto di te appese ovunque in città tanto brutta...»

Non capii esattamente perché mi chiamò con quel nome, i comunisti non c'erano più, e comunque non sapevo nulla di comunismo. Fece una smorfia, e all'inizio pensavo fosse una bugia per illudermi un po', ma quando rivolsi lo sguardo verso Susan, pronunciò solo:

«It's true

E sentii il mio cuore come cadere completamente.

Natasha IvanovDove le storie prendono vita. Scoprilo ora