Capitolo 2

393 31 6
                                    

La tracolla nera che porto in spalla, oggi pesa più del solito. Non saprei dire cosa pesi di più, il vocabolario di latino o il grosso panino che mio padre mi aveva preparato come ogni mattina per scuola.

La macchina è dal carrozziere un'altra volta ed io sono costretto ad andare a piedi a scuola a causa di quel catorcio. In realtà non mi dispiaceva camminare, perché così avrei avuto una scusa per passare dal liceo classico e vedere tutte le ragazze fuori che aspettano l'ultimo suono della campana per entrare in classe. Beh, non proprio tutte le ragazze. Il mio sguardo ne cercava e bramava sempre e solo una. Eccola, l'ho individuata, in piedi appoggiata all'albero e circondata dalla sua solita cerchia di amiche. Conosco Gaia da quando andavamo insieme a catechismo da bambini. Non fu affatto una specie di colpo dii fulmine mistico che mi incendiò per la sua bellezza. Era una semplice bambina dalle trecce rosse e gli occhiali da vista troppo spessi che rendevano quasi sbiadito il color nocciola dei suoi occhi. Non era neanche molto loquace. Non parlava con nessuno tranne che con le amiche viziate e snob che sicuramente i genitori avevano avuto premura di riunire. Amiche che del resto aveva mantenuto e che ora stanno parlando animatamente con lei mentre sfoggiano le nuove borse di Luis Vuitton per le quali non avranno dovuto faticare un centesimo. Fu per questo che inizialmente non sopportavo nessuna di loro, neanche Gaia. Pensavo fosse come loro e me ne tenevo a distanza. La prova che mi dimostrò quanto sbagliassi arrivò dopo circa un anno dal nostro primo incontro. Bisogna sapere che dove c'è un gruppo di ragazze snob, quasi sicuramente c'è anche un gruppo di ragazzi tali e quali. Domandavo spesso a mia madre perché dovessi andare in un gruppo dove tutti erano dei perfetti coglioni figli di papà -ovviamente mantenendo un linguaggio che si addicesse ad un bambino di otto anni- ma lei mi rispondeva che quella fosse la chiesa più vicina a casa e quindi raggiungibile a piedi dato che lei e mio padre non avevano una macchina per accompagnarmici. La mia Giulietta -così chiamavo affettuosamente la mia macchina- arrivò infatti solo molto dopo, quando ebbi l'età per lavorare di nascosto -dato che mio padre era categoricamente contrario- in un pub come cameriere e procurarmi i soldi per comprarla. Comunque sia, quel gruppo di bambini della chiesa non era mai stato molto simpatico o riguardoso nei miei confronti. Non dimenticavano mai di ricordarmi quanto io potessi essere diverso da loro, anche se di diverso avevamo solo i vestiti ed i giocattoli nuovi. Un giorno la chiesa organizzò una partita di calcio con tutti i bambini al campo della chiesa. Durante la partita però, un bambino della squadra avversaria -Marco- cercò di farmi lo sgambetto ed io caddi sbucciandomi il ginocchio. L'arbitro, che non era altri che il parroco della chiesa, fermò il gioco annullando la partita e rimproverando il bambino che mi aveva fatto lo sgambetto. Quello fu costretto a chiedermi scusa, anche se il suo sguardo carico d'odio intendeva ben altro. Dopo che ci fummo cambiati, prima di riuscire ad entrare nella chiesa dove tutti gli adulti ci aspettavano per la messa, quasi non vidi arrivare a tutta velocità Marco contro di me. Lo spintone mi fece cadere a terra, di nuovo.

Come cibo per la vitaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora