10. È colpa mia

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Kuroo aveva ricordi offuscati di ciò che accadde dopo l'incidente.

Luci abbaglianti, ambulanza, polizia, rumore, tanto rumore.

Avevano arrestato il conducente e portato via il ragazzo.
Kuroo aveva urlato con tutta la sua voce affinché lo facessero salire sull'ambulanza, ma non era stato possibile. La madre era stata avvisata e aveva portato con sé anche Kuroo in ospedale.

Solo dopo che la madre di Kenma glielo aveva fatto notare, Kuroo si accorse di avere le mani e la maglietta sporchi di sangue. Andò a lavarsi in bagno, compiendo movimenti inconsci, come una macchina.

Rimasero in sala d'attesa tutta la notte, nonostante il padre del ragazzo fosse arrivato e avesse cercato di convincerlo a tornare l'indomani mattina.
La madre di Kenma era palesemente scossa ma cercava di mantenere la sua compostezza e di rassicurare Kuroo.

"È tutta colpa mia, se non l'avessi chiamato non si sarebbe girato e non sarebbe successo nulla. È colpa mia."
Nessuna parola poteva fargli pensare il contrario, benché la colpa non fosse stata davvero sua, ma del conducente, che aveva un tasso alcolico ben al di sopra del limite di legge. Il susseguirsi di eventi aveva voluto che Kenma si girasse proprio in quel momento, ma questo non significava che la persona che lo aveva fatto voltare fosse colpevole.

Dopo un'attesa interminabile, uno degli aiutochirurghi uscì dalla sala operatoria. Voleva parlare solo con la madre.

Kenma non era più in condizioni critiche, ma non sapevano quando si sarebbe risvegliato. Era in coma.
Queste parole trafissero Kuroo come dei pugnali e il ragazzo corse in bagno a vomitare. Quando non aveva più fiato e aveva rigurgitato anche l'anima, era tornato in sala d'attesa. Fuori lo aspettava la madre di Kenma pronta con un abbraccio.

"Vai a casa a riposare, potrai tornare domattina se lo vorrai"

Kuroo avrebbe voluto resistere al braccio con cui il padre aveva cinto le sue spalle per portarlo all'uscita, ma semplicemente non ci era riuscito. Il suo corpo aveva smesso di rispondere.

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Kuroo non aveva chiuso occhio ed era rimasto tutto il tempo con il cellulare in mano, sperando in una chiamata della signora Kozume che portava buone notizie. Non aveva pianto, non certo perché non fosse triste, ma perché lo shock aveva bloccato le sue lacrime.

La mattina seguente si alzò all'alba. L'orario delle visite non si applicava alla madre di Kenma, ma lui avrebbe dovuto aspettare le 10 per potersi recare all'ospedale. Non aveva dormito, né mangiato; si era solo lavato, meccanicamente, come aveva fatto la notte precedente in ospedale.

Non potendo aspettare oltre, il padre lo aveva accompagnato in ospedale alle 8:30, dopo che il figlio aveva insistito per oltre un'ora.
"Vuoi che resti qui con te?", chiese il padre. "non c'è bisogno, vai pure. In ogni caso c'è sempre la signora Kozume".

Kuroo, che di solito era composto e sicuro di sé, cercò invano di entrare in anticipo. Non aveva le forze di far nulla e non era riuscito a convincere le infermiere. Nel frattempo, la signora Kozume lo teneva aggiornato per messaggio, non che ci fosse molto su cui aggiornarlo.
«Stai tranquillo, se ci sono cambiamenti ti avverto. Ti aspettiamo alle 10.»

Kuroo sapeva che stare lì o in camera con Kenma non avrebbe fatto alcuna differenza ma voleva stare il più possibile vicino all'amico.
«Va bene, grazie», fu solo in grado di rispondere.

Anche durante quell'attesa interminabile non pianse, rimase solo a fissare il pavimento.
I quadretti marroni e beige del pavimento all'ingresso dell'ospedale si ripetevano con un pattern sempre uguale, che si interrompeva solo in prossimità delle 4 colonne di pietra che si trovavano nel centro della stanza.
Oltre a fissare il pavimento, il ragazzo guardava di continuo l'orologio appeso alla parete. Il tempo sembrava scorrere a rilento.

Quando finalmente poté entrare, Kuroo seguì le indicazioni per la stanza di Kenma.

Il suo stato di shock non gli aveva permesso di realizzare appieno la situazione e anche i passi lungo i corridoi e le scale sembravano quelli di un robot.

Ciò che lo scosse dal suo stato di trauma fu la scritta "Kozume", che lesse sulla porta della stanza 457. Era tutto vero, non era un incubo.

Sebbene avesse aspettato quel momento per ore, ora che si trovava lì, davanti a quella porta chiusa, Kuroo si fermò, rilesse il nome più volte e scoppiò in un pianto irrefrenabile.

Kuroo quella mattina arrivò in ritardo - κυrοκεnDove le storie prendono vita. Scoprilo ora