Separazione

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I passeggeri della Carpathia dimostrarono di avere un grande cuore quando lasciarono le loro cabine per fornire alloggio a noi, ma comunque la nave si trovava sovraffollata. Eravamo tutti quanti mescolati  e sparsi, alcuni li vidi addirittura dormire su delle scomode sedie. Donne e uomini vennero divisi, io mi ritrovai a trascorrere la giornata nella sala della biblioteca, dove altre donne stavano condividendo le loro disgrazie. Non potevo far altro che pensare alla perdita di Anne, che ero certa mi avrebbe segnata fino alla mia tomba. L'immagine del suo corpo spento raffiorava nei miei pensieri ogni singolo istante, non lasciandomi trovare pace. Ma ormai non ero nemmeno più in grado di piangere, le mie lacrime erano tutte state consumate in questa notte terribile, che evolse nei peggiori dei modi la mattinata seguente. Eppure, non mi restava che la rassegnazione, e sperare che ora non stesse più soffrendo, dovunque si trovasse.
Una nota scrittrice sedeva al mio fianco, e stava condividendo la sua esperienza, come del resto stavamo facendo tutti. "Sono giunta ad aver perso ogni speranza," pronunciò, addolorata, "mio marito, ne sono certa, si trova ora disperso nell'Oceano Atlantico."
Era davvero impossibile non percepire il suo dolore, eppure non sembrava versare alcuna lacrima.
Una giovanissima donna si mostrò così gentile da condividere i suoi abiti con me, e mi cedette anche la sua cabina, che condivideva col marito, sostenendo che avrebbe alloggiato in quella di sua sorella. Non potei esserle più grata. Era da alcune ore che non comunicavo con Leonard, ma dal tronde era giusto così, doveva anche lui trascorrere del tempo con la sua famiglia. Io, invece, non volevo che stare da sola e non pensare più, ma nemmeno il sonno riusciva a prendermi, questo perchè riuscivo ancora a percepire le acque fredde in cui avevo trascorso la notte, e naturalmente il dolore della perdita di un caro.
Stesa sull'enorme letto, il mio sguardo vagò sul soffitto, dove sembrarono prendere forma quelle immagini terribili. Sentivo anche di non stare molto bene, mi era venuto il raffreddore, ma mi sembrava il minimo che potesse accadere. Frustrata, mi avvicinai al camino in pietra acesso ai piedi del letto, al quale mi appoggiai e cercai, ancora una volta, di liberare la mente.
Sentii bussare alla porta, perciò mi alzai per andare ad aprire, avendola chiusa a chiave per non essere disturbata.
"Mary..." sussurrò, avendo probabilmente capito cosa fosse successo. Poi si avvicinò a me e mi abbracciò. Solo le sue, di braccia, risultavano essere un punto di conforto per me, ed in quel momento le lacrime riaffiorarono, e mi lasciai ad un terribile pianto. Il decimo, in un unico giorno.
La notte, a differenza del giorno, non fu altro che un ammasso di silenzio, perchè oramai, le sofferenza si stavano alleviando, e la stanchezza stava trovando sfogo. Anch'io riuscii finalmente a trovare pace, e così riuscii ad addormentarmi, per essere poi risvegliata la mattina seguente dal dolce sole che traspariva dalla finestra.
Decisi, allora, che fosse giunto il momento di mangiare qualcosa visto che le forze venivano a mancare, così, assieme ai miei genitori (con i quali non avevo nemmeno molto parlato) e ad alcuni passeggeri e sopravvissuti, consumai la colazione. Questo terribile avvenimento mi aveva tolto le parole di bocca, non riuscivo a legare due frasi insieme, dunque mi limitai a non parlare. La perdita di un famigliare aveva sempre avuto questo peso per me: mi toglieva ogni forza e mi rendeva tacita, tutto ciò che io non ero nell'ordinario. Leonard non si intromesse in queste questioni, anzi, si mostrò molto rispettoso. Sapeva bene quanto i miei genitori lo disprezzassero, per questo si tenne alla larga, almeno in loro presenza, non volendo andare a peggiorare la situazione. Sapeva, però, anche di quanto io avessi bisogno di lui, per questo veniva nella mia cabina di volta in volta, per portarmi da mangiare o semplicemente per chiedermi come stavo. Per lui, il 15 aprile, fortunatamente, si era chiuso con un lieto fine: stavano tutti bene, ed era un miracolo. Si accorse anche del mio raffreddore, infatti si mostrò così premuroso da farmi preparare anche degli infusi caldi, mirati ad allentare la malattia. Lui sembrava in perfetta forma, come sempre, ma sapevo benissimo quanto ne risentisse ancora di quella notte.

Il pomeriggio del 16 aprile tutti i superstiti vennero convocati in una riunione nel salone principale della Carpathia. Vennero presi provvedimenti per i più sfortunati, di modo che potessero essere più adagiati fuori di qui. Mi sembrò un pensiero davvero nobile. Venne anche organizzata una raccolta fondi, mirata ad aiutare chi aveva perso tutti i suoi possedimenti.

Tuttavia, non restava molto da raccontare di quelle misere giornate, in cui non riuscii che a provare dolore, dolore e dolore. Il 18 aprile arrivò presto, e fu il giorno in cui giungemmo a New York. Una destinazione che oramai ci sembrò surreale.
Mi trovavo con Leonard nella mia cabina, ci stavamo salutando.
"Promettimi che ci rivedremo ancora." dissi con gli occhi lucidi, non volendolo lasciare.
"Te lo prometto, Mary." fece la sua promessa stringendomi le mani. "Ma prima," disse, avviandosi verso lo scrittoio per prendere un foglio, "tieni questo, e non perderlo."
Presi il foglietto per leggerlo, mi aveva dato il suo indirizzo. Abitava piuttosto lontano da New York, per questo pensai che ci sarebbe stato difficile vederci.
"Scrivimi."
Lo guardai amareggiata, era l'ultima persona che avrei voluto abbandonare. Soprattutto dopo tutto questo orrore. Mi guardò a sua volta e lessi il dolore anche nei suoi occhi. Mi accarezzò il viso, poi le nostre labbra si unirono in quello che sarebbe stato l'ultimo bacio. Fu così straziante staccarsene. Mi sarebbe mancato tutto: il suo profumo, le sue carezze, le sue labbra, il suo orrendo umorismo, la sua spavalderia, lui.
"Non voglio lasciarti." Cominciai a piangere. Non volevo davvero.
"Non mi stai lasciando. Ci rivedremo, e tu questo lo sai benissimo."
Sospirai. Non sapevo nemmeno come replicare. Io, comunque, ero sicura del contrario. Non pensavo che ci saremmo rivisti, avremmo ripreso a condurre le nostre vite: io a Londra con William, e lui a Filadelfia. Eppure, non c'era cosa che volessi più che rivederlo.
Nonostante il tragico modo in cui questo viaggio si era concluso, l'avrei rifatto all'infinito. Avevo finalmente capito che cosa volesse dire 'vivere', ma anche che cosa volesse dire 'amare', e ritenevo che non ci fosse persona che amassi più di lui. Nessuno.
Ci sedemmo entrambi sul letto, mi poggiai per l'ultima volta a lui, e tentai di godermi il più possibile il suo tocco.
"Mary?" mi richiamò. Lo guardai.
"Lascia che ti guardi per un po'."
Gli sorrisi, i suoi occhi marroni si illuminarono leggermente. Poi le nostre labbra si unirono di nuovo, in un bacio ben più lungo del precedente, eppure, straziante uguale. Le sue mani vagarono fra i miei capelli sciolti, gli stessi che non volevo vedesse in questo stato la notte in cui si presentò alla mia porta. Se ne accorse anche lui, infatti sorrise leggermente.
"Non sembra mai bastare." pronunciò, fra un bacio e l'altro.
"Probabilmente non basta." risposi, baciandolo a mia volta.
Poi, vedendo l'ora, mi dissi che non potevamo continuare così, dunque ci staccammo l'uno dall'altra.
Mi accompagnò alla porta, dove, chiaramente, ci scambiammo un altro bacio.
"Va bene. Devo andare, ora. Scriviamoci, per favore."
Lui annuì, poi vedendo che abbassò lo sguardo, io me ne andai. Lungo il corridoio tentai in tutti i modi di trattenere le lacrime, e mi recai all'esterno, dai miei genitori.
"Stai bene?" domandò mia madre, accarezzandomi la schiena. Io annuii, senza aggiungere altro.
Nel mentre che ci avvicinavamo a New York, una fitta pioggia si diffuse, eppure nessuno sembrò curarsene. Rivolsi un ultimo sguardo alle mie spalle, dove vidi Leonard e la sua famiglia. Ci guardammo, mi sorrise. Mi imposi di non scordarmi mai di quel sorriso, per nessuna ragione al mondo.

La nave attraccò, e ad aspettarci, in mezzo al buio, ci trovammo un'enorme folla di persone.
Fra di loro mio padre riconobbe subito mia zia Emily, e non appena si furono avvicinati, si scambiarono un caloroso abbraccio. Io e mia madre ci avvicinammo.
"Oh, Patrick! Si sono sentite cose terribili. È tutto vero? Sono così grata che stiate tutti bene!"
A questa affermazione mostrai un piccolo sorriso di tristezza, come a dire che sarebbe stato bello se fosse stato così.
"Ma, dov'è la piccola Anne?"
Al sentirla nominare il mio cuore si spezzò, e cominciai a piangere silenziosamente.
"Non ce l'ha fatta, Emily." le disse mia madre, con voce spezzata. Il volto di mia zia si ricoprì di lacrime, e così si abbracciarono. Poi si avvicinò a me. "Mary! Tesoro mio..."
La strinsi in un caloroso abbraccio, senza dire nulla. Venimmo scortati alla macchina che ci avrebbe portati a casa di mia zia, dove non avrei fatto che attendere che tutte le mie sciagure svanissero da sole.

RMS Titanic - un viaggio da non dimenticareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora