颜色

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Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.
-George Gordon Byron

Il dolore è rosso.
È rosso il sangue che ti scorre lungo il corpo, sono rossi gli occhi dopo le lacrime, sono rosse le tue nocche dopo l'ennesimo pungo sferrato alla parete.
Un rosso cupo, spento.
Un rosso che, solo a vederlo, ti risucchia la felicità delle vene, che tinge di dolore tutto ciò che di bello c'è a questo mondo.
Io ero rossa e rendevo rosso tutto ciò che mi circondava.
Il rosso era l'unico filtro attraverso il quale osservavo il mondo circostante,  l'unica costante della mia vita che, in effetti, costante non lo era stata mai.
Eppure era sempre con me, magari a vedermi non si notava nemmeno, ma posso assicurarvi che non mi abbandonava mai.
Era sempre lì, solo gli osservatori più acuti e gli occhi più esperti avrebbero potuto notarlo.
Una piccola cicatrice sulle nocche arrossate, un livido violaceo sulla gamba liscia o semplice taglio sulla pelle candida.
Ecco lì il mio rosso, amico fedele.
Mi sarebbe rimasto addosso come un segno indelebile,  avrei convissuto tutta la vita con i segni del dolore, che mi ricordavano che la tristezza è sempre dietro l'angolo,  e che la felicità non è poi gran cosa se nasce dal dolore.
Insomma, come può qualcosa che fonda le sue radici nel rosso più vivo essere, che so, azzurro?
Non può.
Mi era entrato nelle ossa, mi scorreva nel sangue confondendosi con esso stesso.
Fluiva incessante sotto pelle e aveva macchiato la mia anima, e i miei ricordi. Byron aveva ragione, perché i ricordi felici non ti rendono felice, ma i ricordi tristi ti rendono triste, e non c'è nulla che tu possa fare per cambiare le cose, puoi solo provare a non pensarci, a vivere la tua vita come se quei ricordi non ti appartenessero realmente.
Puoi provare a dimenticare, ma i ricordi sono segni indelebili,  per quanto tu possa ignorarli,  coprirli o semplicemente far finta che essi non esistano, saranno sempre lì,  più sbiaditi, meno limpidi,  ma più vivi che mai.

L'aria fredda della sera entrava ancora gelata nei nostri polmoni caldi e ne usciva a sbuffi leggeri, nonostante fosse estate inoltrata.
L'estate dei nostri diciannove anni, l'estate che avevamo pianificato da una vita e sulla quale avevamo fantastico tutto l'anno scolastico, e ora eravamo lì,  realizzavamo un piccolo sogno, un'ennesima linea rossa da tracciare sulla lista dei desideri.
Perché vivevamo di quelli, io e nadia, o meglio, lei ne viveva, io ci vivo ancora.
-Muoviti cazzo, ho voglia di divertirmi- mi ammonì, mentre batteva forte il pugno contro la porta del bagno.
Diedi un'ultima occhiata alla mia figura riflessa nello specchio e aprii la porta.
-come sto?- chiesi, ruotando su me stessa.
-una merda- rispose lei ridendo, per poi rivolgermi uno sguardo complice.
-io?- chiese fiduciosa.
-anche tu- le risposi, rivolgendole un veloce occhiolino.
Nadia era tutto ciò che non avrei mai avuto il coraggio di essere.
Era sincera, era coraggiosa e non aveva peli sulla lingua.
Era quanto di più diverso a me potesse esistere,  eppure ci appartenavamo, eravamo l'una il pezzo mancante dell'altra. Avevamo smussato a vicenda i nostri spigoli vivi, le nostre punte taglienti.
Certo, ci eravamo fatte male, ma ora combaciavamo alla perfezione.

La musica del locale riecheggiava nell'aria scura e pesante, un vociferio si alzava dalla pista a cielo aperto, mentre lo scorrere del tempo era scandito dal suono del basso che picchiava forte contro la cassa toracica.
- Stasera non pensiamo a niente, tutti i problemi resteranno al di fuori di quella porta,ok?- mi chiese,  indicando l'ingresso del locale.
-Affermativo- risposi sorridendo.
L'alcool scorreva lungo le nostre gole, bruciando leggermente lo stomaco e amplificando i sensi.
La mente cominciò a correre veloce, i nostri occhi luminosi guizzavano da un punto all'altro della pista da ballo.
L'alcool ci privò del velo di timidezza al di sotto del quale avevamo vissuto fino ad allora, e con esso, ci privò anche della ragione.
La mente vagava, indugiava su pensieri inutili e il corpo sembrava possedere mente a sé,  del tutto indipendente alla nostra volontà.
Fummo avvolte da una sensazione di benessere e calore, in quel momento, avremmo potuto rivelare al più completo sconosciuto i nostri segreti più intimi, le nostre paure più nascoste,  e probabilmente l'indomani non avremmo ricordato nulla.
Ma da quella notte, il sole non è mai più sorto, per una di noi...o forse per entrambe.
Due giovani cuori si muovevano veloci sull'asfalto freddo, nella più completa oscurità.
Urlavamo, cantavamo, ridevamo.
Tutto ciò che ci passava per la mente sembrava talmente importante, talmente necessario, che non avevamo altra scelta che farlo, ingannate dell'alcool.
Fummo investite da un fascio di luce improvviso, due grossi fanali correvano contro di noi.
Le nostre menti poco lucide non percepirono il pericolo, e almeno so che lei non deve aver avuto paura, perché io non ne ebbi.
Ricordo l'impatto violento, il rumore metallico del ferro che si accartocciava su se stesso, ricordo il suono delle ossa che si spezzavano.
È un suono tetro, basso,  ma che ti rimbomba nella testa e che sovrasta tutti gli altri rumori.
Potrebbe scoppiare una bomba accanto a te, ma tu sentiresti sempre e solo il rumore delle tue ossa che vanno in mille pezzi.
Ma non erano le mie, le ossa che si spezzavano.
Solo la luce bianca dei fanali e il suono delle ossa di Nadia che si frantumavano, poi il silenzio e il buio totale.

E se questo è l'inferno,  pensai, è qui che voglio stare.
Perché sarebbe stato meglio se fossi morta insieme a lei, quella notte.
Ma forse è accaduto davvero, forse sono morta anch'io.
Perché un cuore che batte,  dei semplici polmoni che continuano a filtrare ossigeno non significano vivere.
Perché io, quella notte, sono diventata rossa, sono diventata rossa del sangue di Nadia che mi macchia la coscienza.
Non ci sono nemmeno andata al suo funerale,  i morti non vanno ai funerali, i funerali sono per i vivi, e viva era l'ultima cosa che avrei voluto essere.
Essere responsabile della morte di Nadia e continuare a vivere affinché potessi ricordarlo e convivere con il senso di colpa è la mia punizione più grande, nessun inferno è paragonabile al mondo senza lei.

-Probabilmente io e te non ci saremmo mai conosciuti se lei non fosse morta.
Quella che vivo qui non è la mia vita,  è la sua.
Era lei ad essere stata accettata a questa prestigiosa università in Cina,  non io.
Ho fatto della sua vita la mia perché continuasse a vivere in me, affinché sentissi il peso della colpa gravare meno sulle mie spalle. -
Sentivo il rosso avvolgermi nel suo abbraccio ingannevole, lo sentivo mentre premeva le sue unghie nella mia carne morbida.
Alzai lo sguardo e fissai i miei occhi in quelli di Ignazio, gli avevo aperto il mio mondo e lui era rimasto sulla soglia, in silenzio.
Non potevo biasimarlo, era un bel casino, con tutto quel rosso e le mie paranoie.
A me, però,  il suo mondo piaceva, e se solo non fossimo stati così fottutamente incompatibili avrei abbattuto ogni muro pur di entrarci.
Le luci della città si riflettevano nei suoi occhi scuri, più neri che mai.

-devi starmi alla larga, sei già un po' più rosso di quando sei arrivato, io ormai sono tutta rossa- dissi in un sospiro.
-rosso?- chiese, inarcando il sopracciglio.
-il dolore è rosso- mi strinsi più forte nelle spalle, scuotendo leggermente la testa.
-Il rosso è sempre stato il mio colore preferito- disse.
Ed io ci rimasi secca, a quelle parole.
Perché tra tutte le parole che avrebbe potuto dire,  tra tutte le menzogne che avrebbe potuto rifilarmi per addolcire il macigno che avevo sulle spalle aveva deciso di scegliere quelle,  le più personali, le più vere.
Non mi aveva detto che non avevo colpe, non aveva provato a farmi cambiare idea, sapeva che nulla di tutto questo mi avrebbe mai fatta sentire meglio.
Ma aveva colto la mia essenza, aveva visto il colore della mia anima e non ne era stato intimorito, anzi, a lui piaceva.

-Mi stai regalando tutta la felicità che mi sono negata in questi anni,  Ignazio.- dissi in un sussurro, mentre avvolgeva le sue braccia possenti attorno al mio corpo minuto -io non la merito- continuai poco dopo.
-non puoi essere così severa con te stessa, non puoi negarti la felicità, perché così la neghi anche a me- mi accarezzò dolcemente la nuca.
Io gli stavo negando la felicità.
Ogni mio tentativo di fare del bene sfociava inevitabilmente in altro male.
Doveva essere nel mio patrimonio genetico.
-È l'ultima cosa che voglio- ammisi.
-Allora lasciati andare per una volta, e pensa a te stessa.
E se proprio non ci riesci,  pensa a me.- le sue lunghe dita corsero ad asciugarmi le lacrime.
Portò le sue mani al mio viso e lo avvicinò delicatamente al suo.
E questa volta, fui io a poggiare le mie labbra sulle sue.
Fu un bacio rubato,  un bacio umido di lacrime e carico di tutte le parole che fino ad allora non avevo avuto il coraggio di dire.
-Ho paura, Ignazio.- singhiozzai
-e comunque a me degli altri colori non è mai fregato un cazzo-

*

Salve a tutti,
prima di tutto vi chiedo scusa per il ritardo ma a causa di recenti avvenimenti avevo perfino pensato di chiudere la storia, ma alla fine eccomi qui:)
Spero che continui a piacervi e che non vi deluda, in questo capitolo ci ho messo un po' quelle che sono le mie sensazioni al momento, spero di aver reso l'idea.
E niente, spero vi piaccia.

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