Capitolo 18 - Oscurità

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Nathan

Alle prime luci dell'alba, l'ospedale si svegliò, le infermiere e i dottori fecero i loro cambi di turno e monitorarono i pazienti nel silenzio della mattina.

Avevo dormito poco e niente, giusto per qualche minuto avevo riposato gli occhi, ma stravaccato nella sedia ero davvero troppo scomodo. Aspettai che qualcuno venisse a controllare i parametri di Alyssa e nel frattempo appurai se ci fosse stato qualche cambiamento durante la notte.

Il "bip" continuo era stabile, nella stanza risuonava il suo respiro pesante, rumoroso, ma non potevo fare a meno di pensare che fosse positivo. Le guardai le guance, prive di un rossore, e poi la esaminai tutta. Della solarità che l'aveva sempre contraddistinta non era rimasto niente.

Probabilmente, avevo l'aspetto di un disperato. Portavo gli stessi vestiti di ieri, avevo un filo di barba, i capelli sconvolti per l'agitazione e gli occhi mi bruciavano per le lacrime e le luci bianche della stanza.

«Buongiorno, amore.» le posai un bacio leggero sulla bocca, ma le sue labbra erano così fredde. Un freddo che mi rimase impresso nelle ossa per qualche minuto, un freddo che sapeva di morte. Quasi vomitai al pensiero.

Feci per alzarmi per correre in bagno, quando un dottore entrò nella stanza.

«Buongiorno, devi essere il suo ragazzo.» mi disse a mo' di saluto ed estraendo dal camice una penna. Annuii.

«Sono il dottor Taylor Anderson. Mi hanno detto che sei rimasto qui tutta la notte.»

Mi porse la mano. La rifiutai. Non ero proprio dell'umore di fare presentazioni. Corrugò la fronte, ma non proferì parola per la mia maleducazione.

«Non me ne vado.» risposi secco e il dottore sorrise.

«Non intendo mandarti via, ragazzo.»
Anderson si avvicinò ad Alyssa, esaminò la sua cartelletta e le scostò la camicetta.
Stavo quasi per aggredirlo solo per quel gesto, ma mi irrigidii notando la ferita che aveva nel petto, piccola, circolare, ma ancora rossa e con la crosta.

Anderson mi spiegò che avevano tolto il proiettile dal corpo di Alyssa e che non c'erano state complicazioni, niente emorragie e per fortuna nessun organo danneggiato, ma aveva sfiorato il cuore e questo poteva dare problemi in futuro. Fui costretto a correre in bagno e vomitare quel poco che avevo mangiato il giorno prima. Avevo un vuoto nello stomaco che mi doleva ma non avevo intenzione di ingurgitare qualcosa, ormai i sensi di colpa erano diventati parte di me e bastavano a sfamarmi.

«Dovresti farti controllare.» il dottore si sporse verso di me che ero chinato sul cesso. Lo ignorai. Non ero mica io quello in coma.

«Lei come sta?» mi ripulii la bocca e ricercai in me la lucidità che nelle ultime ore mi aveva abbandonato spesso.

«Il battito non è perfetto, ma comunque per il danno che ha avuto risulta nella norma.»

«Posso fare qualcosa per lei?» domandai tornando accanto ad Alyssa.

«Certo. Puoi mangiare, tanto per cominciare. Non ha senso che lei sopravviva se tu ti lasci morire di fame.» Anderson aveva un ghigno divertito in viso, talmente stupido che avrei voluto spaccargli la faccia. Ma aveva ragione e accettai il suo successivo invito a fare colazione nel bar dell'ospedale.

Baciai la mano di Alyssa promettendole che sarei tornato presto e seguii Anderson in corridoio. Storia il naso alla puzza di malato e di disinfettante nell'aria. Come faceva ad avere fame con questo tanfo?

Quando passava Anderson, tutte le infermiere si bloccavano a fissarlo e a spettegolare come delle scolarette. Lui in effetti era un bell'uomo: alto, moro, circa sui trentotto anni e con gli occhialetti che portava sembrava un intellettuale.

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