Capitolo 32 - Ancora una volta

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Ero distrutta. Semplicemente a pezzi. Mi ero rotta in mille cocci di vetro appuntito quando avevo capito quello che aveva provato Nathan.

Tormento.

Tormento perché da quando ero entrata nella sua vita aveva avuto come unico obiettivo proteggermi e secondo lui, quando mi avevano minacciata e in seguito quasi uccisa, aveva fallito proprio in questo. Come se fosse colpa sua, come se fosse stato lui a puntarmi quella pistola...

Non avrei mai immaginato che si sentisse in quel modo, che si sentisse in colpa per tutto.
Come poteva? Per me lui era stato perfetto. Aveva fatto più di quanto mi aspettassi.

Gli era crollato il mondo addosso quando mi ero messa nella traiettoria di quel proiettile. Perché anche lì, in quel momento cruciale di vita o di morte, lui si sarebbe sacrificato per me. Avrebbe affrontato quell'uomo dei Lambert da solo. E si sarebbe preso il proiettile. Per me. Per difendermi. E non aveva di certo calcolato il rischio che io non mantenessi la promessa di stare in camera. Non di certo aveva pensato che io potessi sacrificarmi a sua volta per lui.

Non mi ero mai pentita di quel gesto, non mi ero mai pentita nonostante il dolore e tutte le conseguenze che ne derivavano. Lo avrei rifatto senza pensarci. Non perché volessi morire. Anzi, per ventiquattro anni tutto ciò che volevo era vivere. Vivere la mia vita, come volevo io, con le mie regole, a modo mio. Non mi importava delle difficoltà. Perché bramavo la libertà di essere semplicemente me stessa. E Nathan l'aveva capito, che io avevo vissuto per troppo tempo in una prigione, come un animale in gabbia. Quindi sì, mi sarei sacrificata per l'unica persona in grado di provare amore per me. L'unica persona che mi abbia mai fatto sentire viva.

E sì, sapere che aveva sofferto per un mese e mezzo, mi faceva estremamente male. Ed era proprio per questo che ci avrei messo il doppio dell'impegno per renderlo felice, per ringraziarlo di tutto quello che fino ad ora aveva fatto per me.

Non mi importava più della cena. Non mi importava di uscire e vedere il resto del mondo marcio e corrotto e privo di valori. Non si poteva scappare dalla realtà, lo sapevo bene.
Ma per una sola notte volevo rimanere in quella bolla di pace. Solo io e Nathan. Solo noi.

I nostri amici non si erano arrabbiati quando li avevamo lasciati uscire da soli, avevano compreso perfettamente che doveva esserci stato un chiarimento inaspettato tra me e Nathan e che volevamo avere un po' di privacy. E in questo modo loro avrebbero potuto fare lo stesso.

Casa di Nathan era grande, ma per quattro persone casiniste come noi, in certi giorni sembrava un buco.

Le cose stavano migliorando lentamente: io, Nathan e Matt avevamo ripreso a lavorare con ritmo, mentre Ana dava esami su esami per laurearsi.

Restammo a letto tutto la sera, a coccolarci come mai avevamo fatto, abbracciati in un intreccio di gambe e braccia. Baci, carezze, silenzio. Era quello che ci serviva dopo tutto questo periodo.

Nathan più di me apprezzava la mia presenza nel grande letto matrimoniale della sua stanza, perché per tutto quel tempo in cui ero stata in coma lui aveva continuato ad avere gli incubi. Ogni notte. Per qualche strano motivo quando gli stavo affianco non sognava affatto, ma dormiva come un bambino. E io ero felice di sentire durante la notte il suo petto contro la mia schiena o la mano che mi sfiorava per capire se fossi solo un sogno o se fossi reale.

Ancora accarezzavo quell'agenda, sfogliandola e rileggendo quei pensieri di un uomo ferito e solo. I pensieri di un uomo che continuava a sperare, che aveva creduto in me. Sin dall'inizio e fino alla fine.

«Sai, ogni tanto ti sentivo.» interruppi il silenzio che si era proteso per forse ore. Nathan aveva la testa sopra il mio petto, il braccio sulla pancia, i capelli che mi solleticavano il viso. Sollevò un attimo la testa e mi guardò confuso.

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