9. Lussuria

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"Sì, è sanguinario, libidinoso, avaro,
falso, sleale, violento e maligno,
putrido d'ogni peccato che ha un nome. Ma
alla libidine mia non c'è fondo, no."
William Shakespeare - Macbeth atto IV


La via è lastricata di cocci di vetro sull'asfalto. Brillano come diamanti, come pietre preziose, sbrilluccicano mentre il mondo è ricoperto di buio, ammorbidito da una coltre di nebbia; sembrano quasi le molliche di pane lasciate da Hänsel e Gretel per poter tornare a casa. 

I lampioni presto si fanno vivi, illuminano la stradina che li conduce fino all'automobile di Lazar, poi dritti fino al rifugio. Le luci all'interno della sua abitazione sono tutte spente – alle tre di notte, è ovvio che sua madre stia dormendo beata da un pezzo. Cercano di non fare rumore.

Lazar non è intenzionato a lasciarla andare, e ha dei motivi ben precisi per insistere a tenerla con sé.

Il primo è che ha bisogno di capirci di più, e solo facendole delle domande può scavare dentro la sua mente.

Il secondo è che non vuole lasciarla andare sconvolta, spaventata e un po' ubriaca, e non vuole che il giorno dopo torni arrabbiata in agenzia, chiedendogli perché non ricorda niente.

Lazar non sa perché Deya cancella le sue memorie come tracce di matita da un foglio bianco. Non lo sa proprio, e anche se ha visto tanti film horror, anche se conosce bene i serial killer per ciò che ha visto nelle pellicole cinematografiche, non sa interpretare le curve instabili di quella mente deviata e pura, candida e frammentata di vetro tagliante.

Prendono posto sul divano, in una stanza dipinta di bianco, con il divano che dà le spalle a un grosso computer con due schermi. Lazar recupera della vodka liscia dal frigo, perché dopo ciò che hanno visto urge qualcosa di forte, e la birra non basta. Ne riempie due calici da spumante, anche se non sono i bicchieri adatti, e anche se quella di certo non è la dose consigliata, ma servirà a scaldarli – dal freddo e dal terrore.

Brindano in silenzio, solo il tintinnio dei bicchieri e il soffio del vento fuori, che tortura le imposte e porta le finestre a sbattere fragorose, quasi insopportabili.

Sono vicini, così vicini che Deya può inclinare appena il capo e guardarlo bene, vederlo come non lo ha mai visto, potendone ora analizzare ogni difetto – se solo ne avesse uno, ma non riesce a trovarne alcuna traccia sul volto scolpito da una morbida perfezione. Forse un accenno di barba, un alone che sorge sottopelle e che il giorno dopo verrà annientato dalla lama di un rasoio e un po' di crema al profumo di calendula.

Deya manda giù qualche sorso di vodka, il liquido le brucia la gola e la fa tossire, poi si ricompone, con la voce strozzata. «Domani mi sveglierò e questo sarà solo un brutto sogno», mormora poco convinta – eppure vorrebbe crederci.

«Già, sarebbe bello, ma temo che non succederà...», Lazar preferisce non viaggiare con la fantasia e non sperare in un mondo di luce, perché non sarebbe reale.

Solo una fiaba per far stare buoni i bambini.

«Che ci facevi quella volta nel bosco, Deya?», le chiede, indagando, speranzoso di tirarle via qualche informazione. Odia non sapere, lo fa impazzire.

«Ero solo andata a leggere un libro. Mi sono addormentata.»

La stessa scusa che si rifila da giorni, ma sarà reale?

Inizia a non avere più alcuna certezza, brancola nel buio della sua mente.

Non vuole sorbirsi altre domande, vuole solo spegnersi. Far tacere il mondo. Manda giù il liquido rimasto nel bicchiere – quello di Lazar è ancora a metà. Poi si sporge per abbandonare il vetro macchiato solo di qualche goccia trasparente di vodka sul tavolino di fronte.

Fame di maleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora