30. Fine

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"Quando nell'amore si smette di combattere, l'amore non c'è più."
Søren Kierkegaard


Deya non ha idea di quante ore siano passate.

Ha provato a trascinarsi in avanti con la sedia, ma con le braccia e le mani legate non è riuscita a fare un granché. Ha strillato più volte il nome di Lazar, ha sperato che qualcuno nel buio la sentisse. 

Il tanfo del corpo putrefatto di Iuri le è entrato nelle narici. Non riuscirà mai a dimenticarlo.

Ha provato a liberarsi fino a graffiarsi i polsi, ma senza risultato. Si è provocata soltanto della pelle scorticata che brucia come l'inferno.

La preoccupazione la sta uccidendo, finché non avverte dei rumori provenire dall'altra stanza, e per un secondo pensa che sia soltanto frutto della sua immaginazione. La speranza le gioca brutti scherzi.

«Deya?», però la voce di Lazar è inconfondibile, riaccende fiamme ormai divenute cenere.

«Sono qui. Sono viva», non sa se lo saranno a lungo. «Quando ti ho legato le mani non ho stretto tanto. Puoi provare a liberarti?», deve mantenere la calma, e ha bisogno che parli ancora, l'insidioso timore che possa perdere conoscenza di nuovo pronto a premerle la pelle fino ai lividi.

Un po' di silenzio, poi altri rumori appena udibili, sussurri persi nel buio.

«Sei sveglio?», chiede, alzando la voce. L'ansia di sentirlo spegnersi, l'incapacità di vedere se ha sangue sul volto, se è lucido, se prova la stessa paura folle. Solo pareti, buio, e la luce dell'alba che comincia a filtrare fra le travi di legno decomposte.

«Ci sto provando...»

Ora è certa di averlo sentito.

«Oddio, è stato così facile che non ci posso credere», sente dopo qualche istante, e le pupille di Deya si illuminano come una stanza buia dopo un click sull'interruttore collegato alla lampadina che tutto irradia.

La raggiunge dopo qualche istante troppo lungo, in piedi e senza corde a impedirgli di muovere le braccia.

È troppo semplice. Non può essere vero. Per un momento, uno soltanto, non si fida di lui.

Poi lui le libera i polsi, scende a slegarle la gambe attaccate ai piedi della sedia, e l'aiuta ad alzarsi, anche se è tremolante e instabile, le palpebre spalancate per il terrore mescolato con qualche goccia d'ansia. 

La sua mente non riesce ad accettare che sia accaduto davvero, che non sia soltanto un inganno. 

Il volto di Lazar si distorce, si deforma e poi torna normale. Gli occhi si ingigantiscono, poi tornano alle solite dimensioni. Le labbra si aprono in una voragine che porta agli abissi, poi si riuniscono a formare una linea.

«No, c'è qualcosa che non va, non può essere così facile...», affretta il passo verso la porta all'ingresso, quella da cui sono entrati, e scappa da quelle allucinazioni prive di senso. 

Tiana non può averla drogata di nuovo, non le ha fatto bere niente.

Prova ad aprire l'ingresso, ma è chiuso a chiave. «Ecco, appunto», frustrata, tira un calcio di fronte a sé, ma non riesce a fare altro che provocarsi del dolore, una fitta che risale dalla pianta del piede fino al ginocchio.

Lazar la ferma, tenendola per un braccio. «Devi restare calma. Siamo già a metà opera e sei stata bravissima finora. Karen potrebbe tornare da un momento all'altro e noi dobbiamo essere fuori di qui prima che arrivi.»

Fame di maleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora