10. Paralisi del sonno

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"Ci hanno promesso che i sogni possono diventare realtà,
ma hanno dimenticato di dirci che anche gli incubi sono sogni."

Oscar Wilde


 Il bosco di notte è cupo. Più della notte, più di un cimitero cosparso di epitaffi e fiori sgretolati fino alla polvere, fra statue decadenti e candele consunte. Una torbida eclissi brilla nel cielo e lo tinge di scarlatto, una palla di fuoco stagliata contro un manto nero nudo di stelle, ma coperte da sottili veli di zucchero filato. Nuvole in ordine sparso messe a formare nuove costellazioni, nuovi disegni di astri in fiamme. Un ticchettio rimbomba lontano, risuona come una manciata di passi in un corridoio vuoto, e il freddo le sferza il volto, le taglia il fiato, le imbottiglia il cuore fino a renderlo più lento nei battiti. Una fuga disperata contro il tempo, con i rami che graffiano le caviglie e che disintegrano la stoffa dei vestiti.

Deya corre in una bolla onirica distante dal mondo reale. Corre per sfuggire da un incubo, ma non riesce proprio a svegliarsi, pur essendo consapevole di star sognando. Si ripete che la luna, nel mondo reale, non è così vicina – in modo mostruoso, quasi stesse per schiantarsi sulla Terra e distruggerla per intero, non salvando niente, neppure un granello di vita.

Qualcosa si anima nell'oscurità. Un guizzo bianco candido, neve liquefatta ai margini delle strade, e il fruscio di una gonna di seta. Una pallida figura che corre nel bosco, davanti a lei, quasi volesse invitarla a inseguire una precisa direzione – ma in un sogno, dove ogni cosa s'intreccia con i ricordi e si confonde con le dimenticanze, come si può stabilire quale sia la strada giusta?

Si sente di fronte a un incrocio dai mille viali, come se avesse tutt'intorno centinaia di cartelli con scritto "qui, vieni qui, passa da questa direzione!" e tutte rischiano di essere la via sbagliata, non ciò che cerca – in fondo non sa neppure che cosa sta cercando.

Come si trova una risposta se non si conosce neppure la domanda?

Sospira, stringe i pugni, e s'impone di essere coraggiosa – come quando è con Lazar, e non sembra difficile mostrarsi spavalda e acconsentire a qualunque follia. Insegue l'ombra vestita di bianco in un labirinto di alberi, foglie, tronchi, rami spogli, esoscheletro di vite immobilizzate dall'inverno.

A quanto pare, quella figura spettrale – quasi un fantasma, o forse più un demone travestito di dolcezza – sembra avere uno scopo e un preciso obiettivo, sembra conoscere il luogo in cui sta andando, correndo con i piedi scalzi senza ferirsi le gambe di un pallore mortale, senza tagliarsi la pelle fino a vedere sgorgare il sangue da delle ferite mortali. Corre fino a un punto preciso del bosco, identico a tanti altri, e poi si ferma di fronte a un cesto appoggiato sul terreno – chissà perché, chissà da chi. Un intreccio di vimini che gocciola un rosso che macchia il terreno, mentre la sagoma si avvicina stringendosi al petto quello strano regalo, fino a porgerglielo tenendo lo sguardo basso, il volto privo di veri tratti; non ci rivede niente in quel viso anonimo, non ci ritrova alcun ricordo, sembra più un casuale miscuglio di alcuni pezzi di persone alla rinfusa, come se avesse creato una creatura di Frankenstein e poi l'avesse rinchiusa in un sogno per proibirle di nuocere altrove.

Si sporge per guardare dentro al cesto, che ora viene appoggiato sul terreno, e con qualche passo e troppo silenzio lo spettro si allontana, con tocchetti leggeri che sembrano quasi un valzer, quasi passi di danza o forse più di fata. Ciò che c'è nel cesto, però, è tutt'altro che fiabesco.

Una serie di mani giacciono sul fondo e risalgono sui lati, fino a intrecciarsi col vimini, fino a gocciolare oltre gli spiragli. Amputate all'altezza del gomito, altre solo del polso. Saranno sei, forse sette, non le può contare perché rabbrividisce. Terrorizzata, cammina all'indietro con le palpebre sgranate e la mente che strilla.

Fame di maleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora