20. Non sei tu

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"Proprio l'imperiosità del comando "non uccidere" ci assicura che discendiamo da una serie lunghissima di di assassini i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, il piacere di uccidere."
Freud



A Deya non piace correre.

Odia a morte sentire i polmoni tormentati come da punture di spilli roventi, le gambe indolenzite, i muscoli che strillano suppliche per poter prendere una pausa. Lazar, però, non le dà tregua, e la incita a muoversi, ad accelerare il ritmo, finché non sbucano sulla strada, e per la fretta quasi un camion non li trascina sotto le ruote e li riduce in poltiglia.

Prende un respiro, si spinge in avanti col busto e appoggia le mani sopra le ginocchia. Il cuore batte così forte che comincia a temere di sentirlo scoppiare.

Non sa nemmeno per quale motivo hanno cominciato a correre come matti, ma otterrà presto una risposta. Il tempo di respirare, di riprendere aria e sentire i battiti forsennati del muscolo al centro del petto cominciare a placarsi.

Tregua.

Fine dei giochi. Fine delle Olimpiadi che hanno appena percorso con l'affanno e il terrore attanagliato alle viscere.

«Si può sapere che diavolo hai visto lì dentro per reagire così?», il suo dubbio è lecito, e ora che sembrano aver scampato la tragedia e se ne sono tirati fuori per miracolo, non può rimanere in bilico, deve sapere.

Non ha nemmeno ripreso con sé la torcia, e tornare indietro è stato più difficile con solo la luce del cellulare a illuminare i contorni degli alberi secchi e minacciosi, cupi e tristi, pregni dell'angoscia di un inverno più gelido del solito.

Lo ha visto così terrorizzato solo quando hanno trovato gli arti umani rinchiusi nel tronco dell'albero.

«Prima andiamo via da qui, non mi sento al sicuro, è come se ci stessero ancora osservando.»

Potrebbe pensare che si tratti di semplice paranoia, ma Lazar fino a quel momento è sempre stato abbastanza razionale. Ha visto di recente come sia governato talvolta dalla rabbia, come sia incapace di controllarla. Non sa più cosa pensare, né chi ha di fronte a sé, né se fidarsi di lui sia davvero la cosa giusta.

Alla fine, però, decide che la curiosità avrà la meglio, e dunque si avviano in direzione di casa.

Certi argomenti si possono affrontare solo davanti al camino e con un bicchiere colmo di vodka ben stretto fra i palmi delle mani. Lazar manda giù un paio di sorsi, distorce il volto in un ghigno schifato, poi si ricompone e abbandona la schiena contro la poltrona.

«In chiesa c'era la prova che qualcosa non va qui in città», lascia girare il vetro trasparente fra le dita solcate dalle piccole bruciature della stufa.

«Lo hai scoperto solo oggi? Insomma, c'è stata l'aggressione al locale con la tizia in coma, il fidanzato scomparso e poi ritrovato nel bosco fatto a pezzi, tu che mi vedi andare a far sparire cadaveri con misteriose figure incappucciate e io che non ricordo niente... in paese c'è qualcosa di sbagliato, sì, ma non mi sembra una grande novità», fra i due, Deya per una volta è quella che riesce ancora a mantenere intatta un po' di lucidità.

«C'erano dei corpi in chiesa. Morti.»

Lazar pronuncia quelle parole con tono asettico, freddo. Le pupille puntate in avanti, ma non sembrano vedere niente. Forse, quella scena continua a tornargli in mente, a riproporsi come un loop devastante. «Erano tre o forse quattro», dice, e iniziano a perdersi le sue certezze. Lo shock è stato tale da superare ogni cosa. Un cadavere vero non è divertente. La morte, quella reale, concreta, quella che spegne l'anima, non è uno scherzo, non è un gioco, non è puro intrattenimento.

Fame di maleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora