21. Vocatus atque non vocatus deus aderit

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"Conoscere la propria oscurità è il metodo migliore per affrontare le tenebre degli altri."
Carl Jung



Il cimitero di notte dovrebbe essere inquietante, lugubre, un posto raccapricciante da evitare a tutti i costi, pieno di fantasmi in pena, sofferenti, a metà fra la dissoluzione dell'anima e la consistenza degli spettri informi. 

Lazar continua ad avere brividi di freddo a ogni passo fra le tombe intaccate dall'umidità che lascia luccicare il marmo bianco, le scritte incise sugli epitaffi intagliati su cui strisciano i vermi, ora contaminati da amorfe macchie di muschio e di muffe orrende.

"Vocatus atque non vocatus deus aderit", legge di sfuggita, ricorda quando hanno ordinato la lapide con quella scritta in latino incisa, ma fa fatica a rimembrarne anche la traduzione – che, curioso, aveva chiesto al tizio coi capelli bianchi che li aveva incaricati di gestire quel funerale. È una frase di Carl Jung, ma proprio gli sfugge il significato, eppure da qualche parte dovrebbe esserne rimasto almeno un residuo sperduto fra le memorie.

Scuote il capo e prosegue fino alla fine. Ha ricostruito tutto a mente, e riportandolo sulla lavagnetta dentro l'obitorio, e non ha invitato Deya – perché fa troppo rumore, perché potrebbe farli beccare, perché ci sono mille e più ragioni per non volerla fra i piedi, soprattutto perché non riesce proprio a fidarsi di lui, sebbene sia quanto più distante esista sulla Terra da un assassino.

Si prende cura dei cadaveri, mica li uccide.

Il gelo della notte penetra oltre i vestiti, la pala stretta fra le dita ha il manico color argento – in realtà è un banale metallo, ma è freddo al tatto e deve spostarla spesso da una mano all'altra, finché non arriva nel punto giusto e può cominciare a scavare – e questo, di certo, lo aiuta a mettere più in moto il corpo e a scaldare i muscoli.

«Vocatus atque non catus deus aderit», ricerca gli stralci di quelle parole nella sua mente, ma in fondo il latino non l'ha mai studiato, non ne sa niente. Però è impressa nel cervello, marchiata a fuoco dalla memoria fotografica. La mormora un'altra volta ancora, e scava, scava finché la pala non si scontra con qualcosa di duro.

«Trovato», un sorriso gli si allarga sul volto. Lo sapeva, era certo di avere ragione. Torna tutto, ogni cosa. L'aveva sentito anche Deya, e il vento non fa quei rumori – anche se di certo preferisce crederci.

Rimuove tutta la terra rimasta dalla cassa di legno – non è una bara, e soprattutto non è una delle loro bare. È una cassapanca piuttosto grossa, all'interno potrebbe benissimo starci un corpo umano – ed è sicuro che sia proprio ciò che troverà una volta aperta.

Tuttavia, quando ha scavato a sufficienza tutt'intorno si rende conto che è chiusa da un lucchetto, e non ha idea di come aprirla. Non ha portato altro con sé, solo una torcia e una pala.

Sospira, asciugando il sudore che gli imperla la fronte dopo tutta quella fatica. Non può andar via senza aprirla e vedere cosa nasconde – pur essendo piuttosto certo del segreto celato fra il legno intagliato. E non può nemmeno lasciare lì quella fossa e sperare che nessuno la trovi. È difficile che di notte qualcuno si infili dentro il cimitero, ma il giorno dopo potrebbe passare qualche persona da quelle parti e ipotizzare che una tomba sia stata profanata, quando non è così. Non farebbe mai una cosa del genere.

Ha bisogno di riflettere. Per rompere il lucchetto senza perderci troppo tempo, e senza avere delle abilità da ladro – non sarebbe capace di usare una forcina o una graffetta per far saltare il meccanismo – servono degli attrezzi adeguati. Non dovrebbe essere troppo difficile, ma non ha gli strumenti adatti. Non lì. Tuttavia, a casa possiede di certo qualcosa in grado di aiutarlo nell'impresa.

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