Capitolo XIV

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Giovedì 4 Marzo

Harry era tornato a casa la sera stessa in cui era arrivato. Lo accompagnai in aereo porto e ci salutammo con un piccolo bacio sulle labbra.
Rimasi a casa solo fino al pomeriggio successivo.
Per dormire avevo prese dei sonniferi, non lo prendevo da anni.
Quello che mi aveva detto...quello che gli avevano fatto. Era oltre l'immaginabile.
Il mio Harry, il mio bambino, era stato violentato da un uomo di almeno 30 anni più vecchio.

Il ragazzo a cui avevo dato il mio primo bacio, era stato torturato. E tutto questo per colpa mia.
Cosa avevo fatto?
Perché in tutto dovevo sempre andarci io di mezzo.
Perché esistevo? Non volevo fare del male a nessuno.
Era ancora mattina. Avevo delle ore davanti e ogni minuto era importante.
Sapevo fosse sbagliato, ma non potevo lasciare che mi amasse. Non volevo che soffrisse per colpa mia.
Mi guardai allo specchio, quella mattina, avevo le occhiaie e i capelli erano scombinati.
Ero brutto, più del solito. Mi accarezzai le guance con le mani e le sentii ruvide al tatto.
Guardai i polsi lisci, poi il petto bianco.
Non sapevo cosa dovevo fare, non sapevo nemmeno come. Ma dovevo farlo.
Si fa questo quando ami qualcuno: lo lasci libero.

Presi la lametta e la ruppi, prendendo solamente la lama affilata.
In quel momento mi tornò in mente la canzone dei Goo Goo Dolls.
Alzai lo sguardo verso la mia figura e, senza pensare al dolore, ficcai la lama nel mio polso e, verticalmente, salii fino al punto in cui il braccio si univa all'avambraccio.
Urlai dal dolore. Cazzo, bruciava tantissimo e speravo tutto potesse finire il prima possibile.
Ne feci un altro, senza pensarci.
Poi misi vicino a me la lettera che avevo scritto per Harry.
Aspettai che gli occhi mi si chiudessero soli e le mie labbra esalassero l'ultimo respiro.
Vidi a chiazze nere. L'ultima cosa che sentii fu l'odore di girasole.

Ascoltai la voce di mia madre sussurrarmi ancora una volta quella storia.
C'era una volta, in un mondo buio, un bambino dagli occhi color mare.
Era conosciuto da tutti per la sua capacità di sorridere. In quel mondo nessuno conosceva la felicità, eppure Lewis (era così che si chiamava il bambino) era nato ridendo.
La madre era preoccupata, il padre non sapevo nemmeno cosa dire. Era stata una delusione per tutti. Lo abbandonarono, lo fecero crescere in un orfanotrofio, ma Lewis, sebbene dovette affrontare tante difficoltà, non perse mai l'abilità del sorriso.

Quando diventò grande, e i suoi coetanei iniziarono ad allontanarlo, lui si sentì solo. Sbagliato. Ogni giorno osservava la luna e le chiedeva "cosa c'è di sbagliato nel sorridere?"
E lei rispondeva sempre "La felicità non è per tutti, Lewis. Ma tu sei un bambino speciale. Io splendo grazie a te."
Ma i giorni passavano e Lewis era sempre più solo. Allora decise di scappare, rifugiarsi nella foresta, raggiungere il fiume e trovare una via di fuga.
Ma la strada era accidentata, le radici degli alberi impedivano il passaggio e Lewis arrivò al lago stremato, con la forza di poter pronunciare un'unica frase.

Raggiunse strisciando le coste del lago. Si bagnò il viso con l'acqua fredda e sentii gli arti farsi molli.
"Oh, Lewis" la luna lo richiamò "come farò senza la tua luce" il ragazzo alzò gli occhi e le sorrise. Si rivolse al fiore che stava crescendo vicino a lui e gli disse:
"A te regalo la forza di scappare dal buio. A te regalo la felicità di una vita luminosa" baciò un petalo del fiore, per poi cadere, esanime, sulle sponde del lago.
Una luce si sprigionò non appena il suo corpo si abbandonò tra le braccia della morte. Era il sole.

Il mondo splendeva finalmente, e il sole aveva due amanti: la luna, che lo osservava e venerava, raccontandogli di Lewis e del suo animo dolce; e i girasoli, che ricordavano ancora quanto era costata quella nuova vita.

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