XIV. Sotto un cielo nemico - seconda parte

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Quella notte i russi aprirono il fuoco. E lo fecero anche quella successiva. Vicino al cortile d'ingresso esplose una granata, dopo un'altra e dopo un'altra ancora, mentre in cielo fiorirono i traccianti. Il fuoco era blando, due o tre mitra; i proiettili fischiavano allegramente come petardi. I piantoni risposero dal tetto, ci fu una breve sparatoria, poi arrivò l'alba e il silenzio.

«Ci siamo quasi» fece Dragan la mattina del settimo giorno.

Qualcosa di più pericoloso di una pioggia di proiettili si era abbattuto sulla scuola, facendosi strada tra le fila inquiete delle reclute: la speranza. La speranza di avercela quasi fatta. Ilyas ne avvertì il profumo tentatore e cercò di ignorarlo. Doveva restare lucido fino all'ultimo, coi piedi ben piantati a terra, senza credere di aver superato il cerchio di fuoco quando si trovava ancora lì davanti a lui, il calore che gli aveva appena accarezzato il viso. Sapeva che era arrivata la fase più difficile della Simulazione, l'ultimo tratto del percorso che, per sua esperienza, era quello che ti toglieva l'ultima stilla di fiato che avevi conservato in gola.

Il rumore degli elicotteri era una presenza costante durante il giorno; li sentiva ronzare in lontananza dalle prime luci dell'alba e avvicinarsi per sorvolare la zona in perlustrazione o bombardare un quartiere vicino. I russi li stavano accerchiando, facendogli terra bruciata attorno. Fra poco anche la scuola sarebbe stata nel mirino dei caccia-bombardieri, lo sapevano e si erano già attrezzati per reagire.

Ilyas dormiva vestito, le poche ore che riusciva a dormire: le uniche cose che si toglieva erano la giubba e gli anfibi. Teneva il pugnale alla cintura, la pistola infilata dietro la schiena. Quando era arrivato a Batum, gli avevano dato tre caricatori d'emergenza, che aveva messo nelle tasche laterali del gilet, e una scatola impermeabile zeppa di munizioni. A parte il kalashnikov non aveva nient'altro. In quei tre giorni in cui avevano dovuto proteggersi dal fuoco nemico avevano quasi esaurito i razzi e le bombe, potevano contare giusto su alcune lanciagranate AGS, due posizionate sul tetto e le restanti nei due cortili. Di granate i russi ne avevano a iosa e l'ultimo giorno le lanciarono a più riprese. Secondo Arkaša erano molto peggio delle bombe: di una bomba si può calcolare il punto di caduta e poi il fragore di una granata è infernale.

Sembra in effetti di trovarsi all'inferno, pensò Ilyas quando salì sul tetto, gli occhi al sole nascosto dietro una coltre densa di fumo.

C'era Dragan insieme a lui. Gli sfiorò il braccio mentre si posizionavano dietro il parapetto, tra i sacchi e le lastre della postazione di guardia.

«Qualunque cosa succeda stanotte, stammi vicino, ok?»

Lui sbuffò. «Che fai, vuoi proteggermi? So pararmi il culo da solo, grazie tante.»

«Lo so.» L'altro guardava oltre il parapetto. «Dico solo: stiamo vicini, pariamocelo a vicenda.»

«Ok.» Ilyas sorrise allora. Si rilassò contro il muro, sollevò gli occhi al cielo che si stava oscurando gradualmente, illividito dal viola del crepuscolo. «Per i dieci giorni di riposo che ci spettano dopo la Simulazione andrai in Serbia?»

Quella decina di giorni, previsti dai protocolli, non li avevano persi insieme alla licenza; anche quella era stata una fortuna.

«Sì. Tu rimani a Darial con la tua famiglia?»

«Non è la mia famiglia. È la famiglia affidataria di mia sorella.»

«Ma rimani con lei, no?»

«Sì.» Ilyas sorrise di nuovo. «Finalmente avremo un po' di tempo da passare insieme.»

Dragan lo occhieggiò. «Tieni tanto a lei.»

Lui non capì se fosse una domanda o meno, ma rispose lo stesso: «È l'unica che mi è rimasta. Della mia famiglia, dico, quella vera. L'ultimo legame con mia madre.»

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