IV. Resistere

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«Avanti, muovetevi! Voglio vedervi le palle degli occhi scattare come quelle gelatine che avete il coraggio di chiamare gambe!»

Se doveva rendere merito di qualcosa a Roman Zamatij, se proprio doveva, Ilyas era costretto a riconoscergli una certa inventiva. Nove, quasi dieci mesi che si trovava al campo reclute di Darial e mai che lo avesse sentito proferire la stessa invettiva per due volte di seguito. Trovava sempre dei modi nuovi e creativi per apostrofare le sue reclute e per lui i comandi non erano comandi se non accompagnati da vistosi insulti.

«Stop!» gridò dal limite del campo. «Flessioni, scopascimmie!»

Ilyas e Dragan interruppero la corsa e si piegarono.

«Flessioni, sissignore.»

«Non vi sento! Cos'è, usate la lingua solo per ciucciarvelo?»

«Flessioni, sissignore!»

Un'altra regola non scritta dell'addestramento era che agli ordini si rispondeva sempre, anche quando non ti sentivi più la voce, come in quel momento, e poi si iniziava a contare. Uno, due, tre. Ogni esercizio andava contato a voce alta. Quattro, cinque, sei. Alla decima flessione Ilyas, il mento e l'intera faccia imperlata di sudore, si sollevò con un grugnito.

«Scattate, pezzi di latrina!»

Erano solo al secondo giro del percorso e lui non sapeva come sarebbe arrivato a completarne dieci. Zamatij li aveva presi da parte la sera del rientro al Comando, dopo una settimana passata sulle montagne, per dirgli che li aspettava l'indomani stesso per la loro punizione. Mentre il resto del plotone si era svegliato e dedicato alla solita routine – sveglia, riordino letti, pisciata, mensa, ritorno in camerata, corsa su per le scale con conto alla rovescia da dieci prima di sciamare al campo di addestramento e aspettare sulla riga le istruzioni per la giornata –, lui e Dragan erano andati con Zamatij al campo di manovra. Era passata poco più di un'ora e Ilyas cominciava già a non sentirsi più le gambe.

«Che diavolo fai, Hasani, rallenti? Muovi quelle cazzo di gambe, voglio vedere i bulbi degli occhi uscirti dalle orbite!»

Con i polmoni che gli bruciavano, Ilyas si diede una spinta per raggiungere Dragan che nel frattempo lo aveva distaccato. Gli sembrò che l'altro ragazzo rallentasse un poco per permettergli di recuperare terreno, ma non fu l'unico a notarlo.

«Kushev, non ti azzardare! Correte, dovete correre più veloce degli inutili spermatozoi che vi hanno generato, mi avete sentito? Scattare!»

Ilyas si riteneva forte, allenato – era anche un mezzo lupo, che diamine! –, e di tutto il plotone era di sicuro il più veloce, ma quel che possedeva in velocità e agilità non lo possedeva nella stessa misura in forza fisica. Poteva percorrere trecento metri in acqua, nuotando a rana, in meno di dieci minuti e completare il giro del perimetro del campo di manovra in meno di tre minuti, ma il suo corpo non si mostrava altrettanto efficiente in altri ambiti. Era troppo magro; non rachitico, ma magro, sì, una cosa che si portava dietro da quando era un ragazzino che ancora puzzava di latte. Si era irrobustito da quando era entrato nel Comando, certo, sviluppando una decente dose di muscoli nelle braccia e nelle gambe, e aveva imparato, a forza di allenarsi, a correre fino a trecento chilometri a settimana, di cui un terzo sulla sabbia, ma non aveva e non avrebbe probabilmente mai avuto la stessa forza di uno come Dragan, in grado di correre più di cinquanta chilometri con anfibi e pantaloni lunghi senza mai rallentare l'andatura, il tutto alternando addominali, piegamenti e flessioni neanche fosse un carro armato vivente. Da lupo, sì, da lupo avrebbe potuto superarlo – e sbranare Zamatij, già che c'era.

Erano arrivati all'ultimo tratto del percorso, un sentiero attraversato da corde elettrificate, sotto cui dovevano strisciare sui gomiti e le ginocchia per poi ritrovarsi in un tunnel riempito d'acqua da percorrere sempre strisciando a terra con addosso l'equipaggiamento completo. Una volta fuori dal tunnel, al grido di stop di Zamatij, Ilyas si buttò a terra, l'acqua gelida, mischiata al sudore bollente, che gli ruscellava dai capelli, lungo i vestiti, dentro gli scarponi. Strizzò gli occhi e si accorse di non riuscire a vedere più niente, che era tutto appannato attorno a lui, come immerso in una nebbia livida e paralizzante.

Sotto un cielo nemicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora