XI. Nel Limbo - seconda parte

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Eccoci qui, siamo arrivati al Capitolo, il turning point, la svolta, la parte più violenta dell'intera storia, sia dal punto di vista fisico, sia psicologico. Non ripeterò gli avvertimenti, sono già stata fin troppo ridondante; chiunque sia arrivato a leggere fino a qui sa già cosa lo aspetta e io spero solo di aver fatto un buon lavoro. Qualcosa di crudo, sì, ma non morboso, sensazionalistico o indelicato.

Rispetto alla versione su EFP ho omesso un paio di dettagli più grafici qui su Wattpad, ma in sostanza il capitolo è lo stesso.

C'è una citazione che mi viene sempre in mente quando mi ritrovo a scrivere scene come quelle che andrete a leggere, di uno dei miei scrittori preferiti, Ian McEwan, che interrogandosi sul perché si scrive – e si legge – di cose orribili, dichiarò: "Usiamo i casi peggiori per misurare la portata della nostra morale. E forse dobbiamo svolgere le nostre paure all'interno dei confini sicuri dell'immaginario, come forma di speranza esorcistica."
Ecco, è l'unica cosa che mi sento di dire, con parole d'altri, se qualcuno dovesse chiedersi perché cavolo ho scritto questo capitolo e questa storia, perché davvero non ne trovo altre – è sempre difficile e forse inutile cercare dei perché.
Vi auguro buona lettura e sparisco!


XI.

Nel Limbo - seconda parte


Qualcosa scivolò lungo il suo petto, leggero come una piuma. Passarono alcuni istanti di stasi, elettrici e immobili. Non avvenne nulla. Ilyas aprì un occhio, poi l'altro. Si ritrovò ancora nella cantina, nella penombra del crepuscolo che aveva cominciato a filtrare dalla feritoia. Bezbòznij non era più seduto davanti a lui, bensì chinato. Gli stava tagliando i legamenti delle caviglie dopo aver reciso il filo che gli circondava il collo.

«Cos...» provò a dire lui, ma la sua voce venne inghiottita da un rantolo quando la mano dell'uomo scattò a prenderlo per i capelli e lo buttò a terra, sulle ginocchia già contuse.

Ilyas gridò più per la sorpresa che per il dolore. Era tornato libero, tranne le braccia ancora torte dietro la schiena, i polsi intrappolati dal filo trasparente, ed era ancora vivo, ma non capiva perché.

L'altro voleva picchiarlo? Ancora? Non era finita?

Tentò di girarsi, ma un calcio sferrato dritto al centro della schiena lo fece cadere in avanti. Incapace di ripararsi il viso per via delle mani legate il suolo gli precipitò addosso. Fortunatamente riuscì a girare la faccia in tempo e a colpire il pavimento solo su un lato. Gemette e provò a raddrizzarsi quando qualcosa lo bloccò all'altezza della nuca: una scarpa.

«No» biascicò e cercò di sottrarsi al piede, che però lo bloccò sotto di sé, esercitando una leggera pressione contro il collo.

Ilyas vide di nuovo bianco e il panico ritornò a galleggiargli nelle ossa. Si dimenò per sfuggire alla presa, dimentico di essere ancora legato, tanto che i suoi polsi ripresero a sanguinare per come li stava sfregando nel contorcersi a terra. La pressione sul retro del collo allora aumentò e lo costrinse a succhiare aria in un respiro scomposto.

«Stai fermo» disse la voce, perché sembrava diventato solo questo adesso l'uomo: una voce, un corpo, quel piede, quelle gambe e quelle mani che Ilyas sentì sfiorargli il capo quando, sollevando lo stivale, si mise su un ginocchio per chinarsi su di lui. Mani calde che si posarono sui suoi capelli per scendere a saggiargli il lato del viso con una strana quanto incongrua reverenza. «Fermo.»

Ilyas trasse un respiro affannato e stava ancora cercando di afferrare i singulti che gli fremevano al di sotto delle tonsille, raggomitolato a terra, quando l'altro lo aggirò, si chinò, lo afferrò per i fianchi e fece per raddrizzarlo.

Sotto un cielo nemicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora