I. Nelle montagne

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Montagne: una fregatura.

Questo pensava Ilyas quel giorno di inizio autunno, a quasi duemila metri di quota, intento ad avanzare insieme alle altre reclute in uniforme e scarponi, il fucile in spalla. Solo quando era un bambino e guardava le montagne dal suo villaggio dalla sponda del Danubio, le cime verdi e tinte di sole, solo allora poteva aver pensato che ci fosse qualcosa di poetico in quel paesaggio aspro e immerso nella bruma. Perché non ci era mai stato, ecco perché. Perché solo chi è stato nelle montagne può capire cosa significa.

Non c'è nulla lassù: tutto quel che ti serve per vivere te lo devi portare dietro. Ti serve cibo, e ammassi razioni per giorni nello zaino fino a farlo scoppiare; ti serve acqua, e ti carichi le borracce con l'acqua razionata al millimetro per ogni sorso; ti servono munizioni, e infili più caricatori che puoi e mezza cassa di granata in tutte le tasche, nello zaino, nelle cartucciere, nella cintura, persino dentro le scarpe. Camminare diventa impossibile poi, figurarsi correre, ma devi correre, non ti puoi fermare, anche con il fucile e il lanciagranate AGS che ti segano le spalle, lo zaino affardellato che ti pesa sulla schiena, i due nastri di granate incrociate sul petto che sbattono contro il torace, il caschetto di zinco che ticchetta contro la fronte e te la fa sudare. E poi ci sono la tenda, i pali, la sega, il badile, il mitra, la gavetta, il sacco a pelo e tutto il necessario che deve essere fatto entrare a forza nello zaino e tirato fuori all'occasione, in fretta, al primo ordine sbraitato. Tre minuti per fare la tenda, venti minuti per mangiare, due minuti per pisciare. Non uno di meno, non uno di più.

Tuttavia, c'era qualcosa di peggio che correre in equipaggiamento in montagna, ovvero essere assegnato al plotone anticarro. Quel giorno non era toccato a lui, per fortuna. Si trascinava il suo AGS di diciotto chili e ringraziava di non essere al posto dei ragazzi del plotone anticarro, che annaspavano sotto i quaranta chili dei Malûtka, i nuovissimi e lucidissimi missili anticarro inviati dal Comando Generale di Mosca per rifornire la Legione. Erano arrivati pochi giorni prima a Darial ed era stata una festa.

Una delle reclute assegnata al plotone, Sanja Bujnak, detto Moccio per la sua abitudine di prendersi sempre il raffreddore, stramazzò al suolo.

Subito il loro comandante di brigata, l'istruttore tenente colonnello Roman Zamatij, gli fu addosso.

«Che fai, palla di lardo? Alzati subito!»

«Per favore» boccheggiò Sanja. «Un attimo...»

«Un attimo? Un attimo cosa?! Pensi che la brigata d'assalto stia aspettando i tuoi porci comodi?»

«Solo un...»

«Alzati subito e comincia a fare i piegamenti, avanti. Su giù, su giù. Ripeti: "La recluta Bujnak è un individualista e se ne frega del resto del plotone. La recluta Bujnak è un piccolo maiale schifoso". Davanti a tutti, tre ripetizioni, avanti!»

Sanja fu costretto a rialzarsi e, con il Malûtka in spalla, eseguire tre serie di dieci piegamenti sulle ginocchia ripetendo quelle parole. All'ultimo quasi non gli usciva più la voce.

La punizione diede la possibilità agli altri di riposarsi per pochi, preziosi minuti. Ilyas ne approfittò subito: senza mettere né il lanciagranate, né il fucile a terra – mai, mai, far cadere il fucile a terra; Il fucile è umano, come me, perché è la mia vita –, riprese fiato.

A pochi metri di distanza Sanja ansimava, paonazzo per lo sforzo, ma Ilyas non ci faceva caso, come aveva imparato a ignorare le punizioni altrui dai primissimi giorni di addestramento. Era inutile farsi coinvolgere, tanto un giorno toccava a uno, un giorno a un altro. Era una lezione che imparavano tutti lì al campo reclute del Comando di Darial: si faceva a turno a essere umiliati e messi sotto, i loro istruttori ci tenevano ci fosse democrazia in quell'ambito e, quando sotto il torchio capitava qualcun altro, potevi solo sperare che il prossimo non fosse il tuo turno.

Sotto un cielo nemicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora