NOVE

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Era in ritardo – come troppo spesso capitava. Non riuscire a organizzare i propri tempi, per presentarsi agli appuntamenti all'orario prestabilito, si era ormai convinto essere un altro dei suoi difetti genetici.

Abel uscì di corsa dal proprio appartamento, salutò al volo Florian, chiudendo la porta alle proprie spalle senza darsi il tempo di sentire il ciao del suo compagno.

Scese le scale alla velocità della luce, evitando l'ascensore, perché proprio non aveva alcuna voglia di attendere sul pianerottolo il suo arrivo.

Bevve un sorso di caffè dalla tazza che si era portato dietro e fu per strada, continuando a correre e a bere.

Anche quella volta non aveva avuto tempo di cambiarsi e sfoggiava una deliziosa vestaglia azzurra a pois gialli.

Aggrottò la fronte, si fermò un secondo per fissare il proprio abbigliamento, e mosse le dita dei piedi dentro le scarpe da tennis. Bevve un altro sorso di caffè e riprese a correre.

Per evitare di perdere altro tempo, decise di tagliare dal bosco. Il terreno era di certo meno stabile del manto stradale urbano, ma era quasi sicuro che così avrebbe guadagnato secondi preziosi e forse sarebbe riuscito a non arrivare troppo in ritardo.

Devo smetterla di ridurmi sempre all'ultimo istante per tutto.

Si fermò di colpo. Forse era questo il punto: era cresciuto abituandosi a evitare determinate cose – discorsi, litigi, atteggiamenti che lo avevano ferito o lasciato turbato – incamerando pensieri, convinzioni, emozioni disturbanti, finché non esplodeva – magari nei momenti meno opportuni, o peggio, fuori luogo – dopo essersi ridotto con l'acqua alla gola.

Scosse la testa e fece per riportarsi la tazza alle labbra, ma, con sgomento, si rese conto di averla persa strada facendo.

Si guardò alle spalle, ma dietro di sé scorse solo etteri ed ettari di bosco, fitto, buio, insondabile.

Fece per togliersi la vestaglia, ma poi ci ripensò, si aggiustò il collo della felpa, la cui cerniera gli pizzicava il mento, facendola scivolare sul petto, di modo che non gli desse più fastidio.

Aggrottò ancora la fronte. Sollevò lo sguardo verso l'alto e la sua attenzione venne catturata da fiocchi sottili di neve che cominciarono a vorticare leggeri e impalpabili nell'aria.

Tornò a guardare davanti a sé.

Dove dovevo andare?

La neve ricopriva ogni cosa, rendendo lo scenario meno lugubre, più freddo, ma anche bianco, soffice, quasi romantico.

Compì un passo, affondando con un piede, nudo, nella neve. Trasalì per il gelo che pareva trapassargli la pelle, diffondendosi in tutto il corpo, congelandogli organi e pensieri.

La testa iniziò a fargli male, la pelle a tirare sui muscoli, tanto fredda da fargli temere che avrebbe finito per creparsi e staccarsi come piccoli frammenti di ghiaccio. La carica del freddo gli si accumulò tra il naso, le guance e la fronte, promettendogli di trasformarsi presto in un micidiale mal di testa.

La vegetazione sembrava chiudersi intorno a lui come un abbraccio spettrale: i rami erano lunghi, scheletrici, si artigliavano nell'aria come dita imploranti. La neve era meno luminosa di quanto si aspettasse, ma poteva lo stesso scorgere i cristalli di ghiaccio che la componevano, intricati e sottili come la più delicata ragnatela.

Fece un altro passo in avanti e venne colpito in pieno da qualcosa.

Cadde di lato con un urlo e si girò subito, ponendosi con le spalle contro il terreno, spingendo le braccia in avanti, per allontanare da sé il suo aggressore.

ARABESQUE ~ Capitolo 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora