VENTICINQUE

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Stava per fare, di nuovo, qualcosa che non voleva fare.

No, che non volesse vedere John, ma essere obbligato a farlo perché, ancora una volta, il suo amico si era trovato in pericolo lo angosciava non poco.

In pericolo per colpa sua, probabilmente.

Stava diventando una costante: le persone che gli erano vicine erano in pericolo – sempre. O era lui a essere in pericolo a causa loro?
Aveva avuto la "fortuna" di incontrare così tante persone che si erano rivelate delle calamità naturali? Stentava a crederlo, era più propenso a darsi per risposta la prima opzione.

Sollevò lo sguardo verso il cielo terso, limpido, il sole alto, luminoso, immenso. Era iniziata l'estate, il caldo. Non ancora da potersi lamentare per il sudore anche stando fermi, ma era piacevole lasciarsi baciare dai raggi tiepidi. La pelle pareva crepitare, aprirsi al tocco dei raggi.

E lui si trovava in ospedale.
Di nuovo.

Il parcheggio era pieno di automobili lasciate a cuocere sotto il sole – si rifletteva sulle carrozzerie, restituendo lame di luce accecanti, bollenti. Gli alberi che delimitavano la zona si erigevano alti, carichi di foglie verdi, lussoreggianti, brillanti di linfa vitale. Le aiuole erano stracolme di fiori, e si sentiva nell'aria l'odore dell'estate, del caldo: un profumo difficile da descrivere a parole, ma riconoscibile a pelle. Lo sentiva sulla pelle, tutto intorno a sé, gli ammorbidiva i sensi e dilatava la percezione di ciò che lo circondava. 

L'ultima volta che si era recato lì era stato testimone di una tragedia di proporzioni apocalittiche, ma almeno, allora, il tempo era stato altrettanto cupo e nefasto. Gli sembrava un'ingiustizia che ci fosse il sole proprio quel giorno, che ci fossero persone sparse per il mondo in fillibrazione, pronte a godersi l'estate, a organizzare le vacanze, quando il suo di mondo, invece, stava velocemente andando a farsi fottere.

Non hai niente di speciale, in fondo. Perché non tu?

Già, perché non io?

Peccato che quello che si trovava su un letto d'ospedale, quella volta, non fosse lui, ma un suo amico.

Entrò in ospedale e venne investito in pieno dall'aria condizionata che subito ammortizzò il calore del suo corpo, facendolo rabbrividire per il repentino cambio termico. Si mosse in direzione del banco informazioni, chiese di Baker e si diresse verso la stanza che gli era stata indicata.

-Ti sei preso d'invidia?- borbottò appena entrò nella stanza, senza neppure salutarlo, avvicinandosi a lui.

John gli rivolse un'occhiataccia. Aveva un aspetto sbattuto, come se lo avessero letteralmente preso per i piedi e sbattuto a destra e a manca. Una parte del volto era completamente ricoperta da un enorme livido rossastro, in procinto di farsi viola. Una benda gli circondava la fronte come la bandana di una mummia e gli avevano "mummificato" pure parte del petto e di un braccio. -Sempre spiritoso come un cactus ficcato in culo-

Abel rise – non riuscì proprio a trattenersi. Forse stava cominciando a mostrare i segni del suo esaurimento nervoso. -Vuoi ravvivare la nostra relazione con qualcosa di estremo?-

Anche John rise, ma si interruppe quasi subito, portandosi una mano al petto, mentre la sua espressione si faceva dolorante.

Abel si morse un labbro e si avvicinò istintivamente di più a lui, stringendo con forza la barra di contenimento del letto. Non gli piaceva affatto che il suo amico soffrisse tanto. Non era giusto. Avrebbe volentieri spaccato il muso alla bestia che lo aveva ridotto in quello stato. Forse avrebbe dovuto munirsi di una scala per osare tanto, perché credeva che la bestia in questione fosse almeno gigante, mostruosamente imponente, altrimenti non avrebbe potuto spiegarsi com'era stato possibile per John non riuscire a difendersi. Era un poliziotto, dopotutto. Un bravo poliziotto. Scosse la testa. -Chi ti ha ridotto così?- chiese in un sussurro, sporgendosi sopra di lui.

ARABESQUE ~ Capitolo 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora