Capitolo ventidue

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«Monia, quanto ci vuole per quel caffè?»

Trasalii. La voce di mia madre, proveniente dal salotto, emanava fastidio misto a impazienza. In sottofondo, le sue sorelle parlavano del più e del meno.

«Arriva subito» risposi, quasi scottandomi le dita nell'afferrare la caffettiera bollente. Riempii la tazza di mia madre e poi le altre tre per le zie. Cercai di ricordare le dosi di dolcificante e zucchero che ognuna aveva richiesto e dalla cucina servii il vassoio al salotto. La stanza era piccola -come l'intero appartamento-, ma la luce estiva che entrava dalla portafinestra del balcone la faceva apparire fresca.

«Oh, finalmente!» esclamò mia madre, mentre scuoteva un ventaglio per contrastare il caldo torrido di inizio luglio. Le zie, a turno, bevvero il caffè e mi fecero i complimenti. «Amore della zia, c'è qualcosa che non sai fare?» chiedevano.

«Tua mamma ci stava raccontando l'esame di terza media» disse una di loro, la tazza fumante in mano. «Sei uscita con 10 e lode! Assurdo!».

Mia madre che, al contrario delle altre, storceva il naso a ogni sorso di caffè -segno che avessi sbagliato qualcosa e non le piacesse- gongolò sulla sedia. «Sì, è stata bravissima. Dovevate esserci all'esame, ripeteva senza confondersi, sembrava una macchinetta. È stata l'unica della classe a uscire con la lode».

I miei voti erano sempre stati motivo di vanto per lei. Più mi esaltava, più aspettative creava nella mente degli altri. Non avevo scelta se non prendere il massimo. Se avessi preso solo 10, mi avrebbe detto: e perché non 10 e lode?

«Poi, parliamoci chiaramente: se non gliel'avessero messo a lei, questo voto, a chi altri? In quella classe di delinquenti non si salva nessuno».

Mi sedetti composta, sistemandomi la gonna e tenendo le gambe chiuse e la schiena dritta. Mia madre diceva che solo i maschi e le maleducate si siedono a gambe spalancate. Sorrisi ai complimenti che mi venivano rivolti per quel risultato. Mia madre, nel frattempo, continuava a elogiarmi.

«Lo faceva sembrare troppo facile! Ma lei è così. Ovunque la metti, è bravissima».

«E dopo che scuola farai?» domandò un'altra zia.

«Il liceo classico» rispose mia madre, «è stata l'insegnante di lettere a proporglielo, e lei ha deciso di andarci. Le ho detto che è pazza: nessuno qui è andato al classico, quindi non la potremo aiutare. È la scuola più difficile che potesse scegliere. Ma a lei piace, quindi...». I volti delle zie si dipinsero di stupore e ammirazione.

Mia madre non riuscì a terminare il suo caffè e lo rimise sul vassoio, accanto alle altre tazze vuote. Cercando di nascondere l'ansia, mi alzai e afferrai di nuovo il vassoio per riordinare.

«Te lo rifaccio?» sussurrai a mia madre, certa che il caffè le avesse fatto schifo. Con gli altri fingeva di essere fiera di me. Ero un animale da circo da mettere in mostra, ma poi, qualsiasi altra cosa facessi, non era abbastanza. Sei brava solo a studiare, diceva.

Scosse la testa, fissandomi con disgusto. «Lascia stare, poi lo faccio io». Rispondeva sempre in quel modo quando non ero in grado di essere subito perfetta. O tutto o niente.

Feci per andarmene, ma il vassoio mi scivolò dalle mani e metà delle tazze si ruppero, provocando un rumore acuto che zittì il borbottio delle ospiti. Mia madre mi lanciò un'occhiata truce e si precipitò a raccogliere il vetro da terra. «Non vi muovete, adesso pulisco tutto. Non vorrei vi tagliaste» disse alle zie.

Mi chinai anch'io per aiutarla. «Scusate. Mi dispiace, mi dispiace molto». Ripetei quelle scuse non so quante volte.

«Non ti preoccupare, l'importante è che non ti sia fatta male».

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