Capitolo diciannove - parte 2

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Come si sta accanto a qualcuno che non vuole ricevere aiuto?

Questo interrogativo aveva attraversato spesso la mia mente, durante i miei diciannove anni di vita. Mi ero sempre impegnata nel capire cosa provassero le persone attorno a me: i loro bisogni, i loro desideri, i loro punti deboli. Cercavo di captare le emozioni altrui, perché in questo modo la gente si fidasse di me. Quando si riesce ad aiutare qualcuno senza che ti venga chiesto, la soddisfazione è impagabile. Nei momenti in cui accadeva a me, mi sentivo sempre una brava ragazza, e io avevo bisogno di pensare di esserlo.

Ma quando la persona che volevo aiutare era restia, le cose si complicavano. Ogni cosa che facessi non aveva un riscontro positivo, anzi, peggiorava la situazione. Tu non puoi capire, mi dicevano. Mi liquidavano così. E ogni volta credevo di essere una stupida che non sapeva niente del mondo e delle persone, nonostante spendessi gran parte delle mie energie ad analizzarle.

Stai sbagliando, mamma. Secondo me lo dovresti lasciare.

Pensavo che la mia opinione potesse aiutare. Pensavo che contasse qualcosa, ma ero io a sbagliarmi.

Cosa vuoi saperne, tu? Credi che i bei voti a scuola ti rendano così intelligente da prendere decisioni per gli altri?

Nonostante avessi appurato che la mia opinione non avesse valore, continuai a desiderare di aiutare chi non volesse essere aiutato, tuttavia senza molto successo. Iniziò a sembrarmi un' impresa impossibile, così rinunciai.
Ma nel momento in cui queste persone vengono lasciate da sole, si arrabbiano perché non ricevono più alcun aiuto e si servono del senso di colpa per ottenerlo di nuovo.
Mia madre ne era un esempio.

Se mi trovassi al posto di Eduar, la ucciderei volentieri mi ritrovai a pensare, per poi scacciare via quell'assurda e violenta riflessione dalla mia testa.
Le brave ragazze non vogliono uccidere i propri genitori.

Osservai la porta serrata della camera da letto in cui Eduar si era rinchiuso da quando, quella mattina, eravamo tornati al rifugio improvvisato. Non aveva più detto una parola e non aveva nemmeno dato segnali di vita. Si era limitato a ritirarsi lì dentro con i suoi rimpianti e i suoi sensi di colpa. Avrei tanto voluto trovare un modo per aiutarlo, ma lui era stato molto chiaro: non voleva ricevere l'aiuto di nessuno. Neanche Shyla fu in grado di dissuaderlo.

Decidemmo entrambe di non disturbarlo, così passammo la mattinata a rimetterci in sesto. Shyla si fece un bagno, disinfettò le ferite che le aveva inflitto Ybris e, dopo aver cercato di rattopparli, indossò gli stessi abiti della notte precedente. Anch'io mi diedi una rinfrescata e cambiai la fasciatura della ferita sull'addome: avevo ancora un grosso ematoma violaceo sulla parte sinistra. Bruciava un po' e doleva quando lo toccavo, ma per ora era sopportabile.

Dopo aiutai Shyla a lavare e stendere i vestiti che avevamo usato a Siderous ed erano in pessime condizioni; rimettemmo in ordine la cassa con gli strumenti di pronto soccorso e la riponemmo nello zaino, insieme alle provviste rimaste e alle armi (caricatori per le due pistole e un pugnale). Shyla si dedicò anche a limare la punta della sua lancia, e mi parlò di quanto ne fosse legata: era l'unica cosa che le era rimasta dei suoi genitori, ma non aggiunse altro.

Quando il sole si trovava ormai alto nel cielo e notammo che un certo languorino ci riempì lo stomaco, iniziammo a preparare qualcosa da mangiare. O meglio, Shyla cucinò lo stesso pasto del giorno precedente - io ero negata ai fornelli- anche perché non potevamo permetterci altro. Disponevamo di qualche verdura, pochissima carne e un po' di pane: non chiesi di che natura fosse la carne perché avevo paura non avrei mangiato. Sapevo che la zuppa di Shyla fosse buona e andava bene così.

Fu nel momento in cui mettemmo tutto in tavola che Eduar uscì dalla camera da letto, diventata il suo tugurio personale. Dato l'accenno di occhiaie e gli occhi arrossati, non doveva aver dormito affatto. Ci lanciò una breve occhiata, tirò su col naso e si diresse alla porta di casa.

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