L'anno è il 1999, il mese agosto. Tutte le mie amiche al momento sono al mare, Ale è a Rimini per due mesi nell'appartamento dei suoi a due passi dalla spiaggia, Giulia in qualche posto inondato da turisti tedeschi in Friuli a visitare la famiglia di suo padre, Ilaria è in Sardegna come ogni anno dai suoi zii. E poi ci sono io: l'unica sfigata che non ha parenti che vivono vicino a uno specchio d'acqua o i cui genitori non hanno abbastanza denaro da permettersi una vacanza degna di questo nome. Mi sarebbe andato bene anche un lago, non pretendo piscine o spiagge dorate. Ho pregato in ginocchio mia madre per poter andare con Ale quando mi ha invitato a stare con loro o perfino di restare a casa, tanto ho sedici anni ora e me la so cavare da sola anche se lei è al lavoro tutto il giorno, ma non ne ha voluto sapere: "Vai a fare compagnia alla nonna, che non la vedi mai", mi ha detto, e ha ignorato qualsiasi mio tentativo di farle cambiare idea. È riuscita persino a resistere a due giorni in cui ho rifiutato di rivolgerle la parola.
Così mi ritrovo nel nulla più assoluto con mia nonna che insomma, le voglio bene, ma il suo concetto di divertimento è lavorare a uncinetto con la radio accesa sul canale di musica classica. Non che ci siano altri modi per passare il tempo, qui: non siamo nemmeno nel paesello, ma nella frazione del paesello. Popolazione: quattro gatti e qualche topo che è riuscito a salvarsi per miracolo. Sono piuttosto sicura che le persone più giovani, qui, siano i miei tre zii, che comunque sono vecchi— non vecchi come mia nonna, ma ci siamo capiti. Di loro tre, due (Matteo e Giuseppe, che chiamiamo solo Beppe) sono scapoli, vivono con la nonna e si vedono poco perché lavorano tutto il giorno nell'azienda agricola di famiglia; l'ultimo, Leo, è il più giovane e avrà boh, più di venticinque anni, vive a Verona e sembra debba arrivare domani.
«Ah, davvero?» chiede la mamma quando la nonna ce lo annuncia. Siamo riunite attorno al tavolo in cucina, tra il profumo delle erbe appese a seccare— rosmarino, salvia, origano e qualche altra che non riconosco, e quello del caffè che esce dalla moka. La nonna versa la maggior parte del liquido scuro in due tazzine e poi mi guarda:
«Vuoi un po' anche tu?»
Annuisco e lei si gira a prendere un'altra tazzina, poi va al frigo e prende la panna da cucina, quella densa con la confezione gialla e bianca. Mi allunga zucchero, panna e un cucchiaino, e nonostante tutto, nonostante le lacrime che ho versato pregando la mamma di non parcheggiarmi qui, sorrido: mi ero dimenticata che lei prende il caffè così, e che quando ero più piccola e la venivamo a trovare in giornata, o lei passava l'estate da noi, mi metteva una goccia scura nel bianco della panna densa. Ora che ho sedici anni le proporzioni sono inverse— meno panna e più caffè, ma il gusto è lo stesso.
«Ti ricordi zio Leo, Francy? Non lo vediamo da un po'», chiede la mamma mentre i granelli di zucchero stridono tra il cucchiaino e la parete della sua tazzina. Faccio cenno di sì, ovvio: anche se non lo vediamo da un po' me lo ricordo come gentile e tranquillo, ed è lo zio che mi piace di più. «Peccato arrivi domani, mi sarebbe piaciuto incrociarlo», sospira, «ma devo tornare subito a Milano. Il lavoro», dice, vaga, riempiendo con gesti ciò che non pronuncia a parole.
Nonna prende un sorso di caffè: «E non hai nemmeno una settimana di ferie?»
Mamma si sistema sulla sedia. Sembra a disagio. «Sì, la prossima, ma...»
«Non serve che tu dica altro», la interrompe la nonna, la sua espressione irrigidita. «È quell'Antonio, vero?»
Mi aggiusto gli occhiali sul naso, imbarazzata dalla piega che ha preso la conversazione. Antonio è il fidanzato della mamma, e la prossima settimana andranno qualche giorno in montagna assieme. Mi hanno pure chiesto se volessi andare con loro, ma no, grazie. Vomito solo al pensiero di vederli tutto il tempo attaccati come due ragazzini.
Mamma fa una smorfia, finisce il caffè in un sorso e senza guardare la nonna si alza e viene a darmi un bacio sulla testa. «Fai la brava, eh», dice, e io mi muovo per sfuggire al suo tocco.
«Mamma dai, non ho più cinque anni», mi lamento, e lei alza entrambe le mani, disarmata.
«Va bene, va bene. Chiamami ogni tanto, ok?»
«Occhei.»
Prende la borsa appesa allo schienale della sua sedia e fa per andarsene: «Ciao, mamma. Ci vediamo a fine agosto.» Esita, poi si gira e guarda la nonna negli occhi. «Grazie, eh.» Se ne va senza aspettare risposta.
La cucina sembra improvvisamente vuota senza di lei, alleggerita dal peso di parole non dette. La nonna finisce il caffè con calma, senza apparentemente sentire il bisogno di commentare, e io la imito.
«Hai bisogno di una mano per portare su quella?» Mi chiede dopo aver posato la tazzina, indicando la sacca da palestra che ho riempito con qualche vestito a caso, il walkman, le mie cassette preferite, quaderni e libri per i compiti delle vacanze e un libro che devo leggere per scuola. Scuoto la testa.
«No, ce la faccio», dico.
«Allora dai, ti accompagno in stanza di tua madre.»
La chiama ancora così: la stanza di mamma. Anche se lei è uscita di casa a diciannove anni. Anche se nulla qui è più suo.
Salgo le scale dietro alla nonna e la seguo fino all'ultima stanza del corridoio, quella attaccata al bagno. Mi apre la porta: le tapparelle sono abbassate per non far entrare troppo il caldo, ma il sole filtra determinato da qualche fessura. Nella penombra riesco a individuare la sagoma dei pochi mobili della stanza: l'armadio, la piccola scrivania con la sua sedia abbinata, un'altra sedia, ma imbottita. È la prima volta che metto piede qui, la prima in cui ci dormirò. Di solito d'estate era la nonna che saliva a Milano e stava con me mentre la mamma era al lavoro, ma negli ultimi anni è diventato sempre più difficile per lei affrontare il viaggio, quindi eccomi qui.
«Quando ti sei sistemata scendi, che facciamo merenda.»
Annuisco e lei scivola via.
Lascio cadere la borsa sul letto, prendo walkman e cassette e le posiziono con cura sulla scrivania, così come il libro che devo leggere per italiano, Carmilla di J. Sheridan Le Fanu, che tra quelli della lista ho scelto perché almeno "ci sono i vampiri", poi i quaderni, libri e dizionari di latino e greco con le versioni per l'estate. Tiro fuori anche i vestiti, un'informe massa nera con qualche raro accenno di colore (la mamma mi dice sempre che mi vesto "come se dovessi andare a un funerale") e li impilo sulla sedia imbottita: posso quasi vedere mia madre alla mia stessa età che ammassa i suoi in modo simile, anche se non lo ammetterebbe mai davanti a me.
Mi prendo qualche minuto per gironzolare per la stanza e studiarla bene: la vedo dappertutto, qui. Mamma è nelle immagini di attori ritagliate da riviste e incorniciate da cuoricini, che ha attaccato sotto la mensola che sovrasta la scrivania; mamma è nelle scritte a penna incise sul legno chiaro della testiera e cancellate un po' dal tempo, un po'da tentativi di pulirla. Mi sdraio sul letto dopo aver lanciato la borsa vuota in un angolo e fisso il soffitto: mamma è anche lì, nella calce muta. Dal piano di sotto comincia ad arrivare il profumo di crespelle fatte in casa, quindi mi alzo e raggiungo la nonna scendendo le scale. Scalino dopo scalino mi chiedo come sia stato crescere in questo posto dodici mesi all'anno, ventiquattr'ore su ventiquattro.
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Come uscita da un sogno
Teen FictionÈ l'estate del 1999, Francesca ha 16 anni ed è costretta a trasferirsi da sua nonna per un mese in uno sperduto paesino della campagna in provincia di Verona. Quello che si preannuncia l'agosto più noioso di sempre si rivelerà invece per lei, grazie...