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Torniamo a casa verso le sei di sera e salgo subito in camera, con l'intenzione di farmi una doccia tra poco. Sono esausta e appiccicaticcia. Mi getto sul letto, il sorriso ancora stampato sulle labbra, chiudo un attimo gli occhi e—


sono in piedi ferma nel prato e il vento mi corre attorno in un allegro benvenuto. Faccio un passo, poi un altro, e poi mi alzo in volo. Apro le braccia e lascio che l'aria mi solletichi le dita. Sorrido. Non mi sentivo così bene da quella che sembra un'eternità.

«Sono tornata», dico all'erba e alla casetta in lontananza, e quando l'aria mi porta una risata la riconosco subito.

«Portami da lei», sussurro, e lascio che il vento mi trascini in avanti.

È seduta a gambe incrociate in aria, a un palmo dall'erba, e ogni tanto si tuffa per cogliere qualche fiore celeste e intrecciarlo alla ghirlanda che ha tra le mani. La guardo per un po', un sorriso indelebile sulle labbra, poi mi avvicino e mi siedo in aria davanti a lei.

«Cosa stai facendo?» Chiedo a mo' di saluto.

Lei alza lo sguardo e mi sorride.

«Una coroncina, vedi?» Dice, con quell'accento strascicato che mi era mancato, e la porta alla testa per farmi vedere come le starebbe. Il blu nontiscordardime dei fiori regala nuove sfumature ai suoi capelli castani e si intona con il vestitino del color del cielo che porta oggi. È davvero corto, le sta molto bene.

«Troppo carina», dico, senza specificare a cosa mi stia riferendo, poi, dopo una pausa in cui riprende a intrecciare: «Ti ho cercata.»

«Anche io, sai?» Dice, e il cuore mi batte un pochino più forte.

«Ah sì?»

Annuisce. «Gli ultimi tre, quattro giorni sono venuta qui ogni giorno. Ma tu non c'eri.»

«Ero...ho sognato altro.» Sciolgo le gambe intrecciate e cambio posizione.

«Eri triste? Stavi male?» Dice fermandosi. Mi guarda intensamente, come se conoscesse già la risposta.

Abbasso lo sguardo. «Sì.»

«Immaginavo. Succede sempre così: riesco a sognare questo posto solo quando sto più o meno bene. Ma nei periodi in cui sto così male da non riuscire a pensare ad altro...semplicemente non funziona. Non riuscirei a ritornare qui nemmeno se lo volessi.» Si tuffa in basso e raccoglie un altro fiore. «Ma se sei qui significa che stai meglio!»

Ci penso un attimo.

«Immagino di sì, almeno in parte.» Il pomeriggio con lo zio ha davvero dato una scossa al mio umore.

«Ha a che fare con il braccialetto che non indossi più?» Mi chiede, guardandomi quasi di soppiatto, e indica il polso libero dal bracciale con il pendente a forma di yang. L'ho tolto il giorno dopo la telefonata con Erica: percepirlo contro la mia pelle faceva troppo male.

«Sì», dico, e poi, dopo un attimo: «Era un costante promemoria di una promessa non mantenuta.»

«Capisco. Una ragazza?» Mi chiede. Tiene gli occhi fissi alla coroncina nel suo grembo, ma le mani sono ferme.

«La mia migliore amica», dico, e trattengo il respiro. Ho paura che mi giudichi, invece dice:

«Era una di quelle migliori amicizie in cui ti sei sempre chiesta come sarebbe stato baciarla, ma avevi troppa paura che ti avrebbe guardato storto se avessi proposto di», e fa il segno delle virgolette con le dita, «"fare pratica" assieme, e ti sei convinta che l'avresti avuta al tuo fianco per tutta la vita? Una di quelle?»

Ridacchio per nascondere il disagio.

«Accurato da far paura», ammetto, e lei sospira.

«Sei ancora cotta di lei, allora?»

Esito. «No», dico poi, seria. È una parola con un peso specifico importante. Significa che prima c'era un "sì" che non avevo riconosciuto come tale finché non si è trasformato in altro.

Lei alza finalmente lo sguardo su di me e mi scruta per qualche istante, come a voler cercare segni di menzogna, ma dopo un po' sembra soddisfatta.

«Bene», sussurra, e non posso fare ameno di sorridere un po' mentre lei si avvicina e mi bacia sulla guancia. Il profumo di ciliegia è l'ultima cosa che sento prima disvegliarmi.


Zio Leo ritorna a casa il giorno dopo, appena dopo pranzo. Prima che entri in auto lo stringo forte, tanto che dopo un po' tossicchia.

«Allenta un po' la presa, orsetta», dice, e ridiamo.

«Zio, grazie di tutto. Di tutto.» Non serve davvero che gli dica che cosa significa "tutto". Dalla sua espressione capisco che lo sa già, e forse lo sapeva ancora prima di invitarmi a Verona, in via Santa Chiara numero 7/a (Indirizzo reale del circolo Pink, sede dell'Arcigay-Arcilesbica di Verona negli anni '90, NdA).

Mi sposta una ciocca di capelli dal viso, tenero.

«Se mai ne avrai bisogno, avrai sempre un posto da me.» Annuisco. Lui mi porge un bigliettino. «Il mio numero di telefono. Di solito mi trovi verso ora di cena. Chiamami ogni tanto, ok, nipote?»

«Va bene, zio.»

Lo guardo andare via finché la sua auto viene inghiottita dalle vigne, poi rientro in cucina dalla nonna a vedere se ha bisogno di aiuto e lo sguardo mi cade sul calendario appeso al muro. Domenica 8. Sono qui solo da otto giorni, e mi sembra al tempo stesso un battito di ciglia e una vita intera.

Come uscita da un sognoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora