«Ho bisogno di voi», ci avverte la nonna quando lo zio e io stiamo per alzarci da tavola dopo la colazione. Zio Leo comincia a sparecchiare e io gli do una mano.
«Per fare cosa?» Chiedo appoggiando la mia tazza nel lavello.
«Oggi è giornata di salsa», risponde lei. Intende la passata di pomodoro: so che la fa ogni anno perché a Natale ci regala sempre dei vasetti, ma non l'ho mai fatta con lei.«Mettiti della roba da poter sporcare, iniziamo tra poco.»
Corro su a cambiarmi e raggiungo la nonna e lo zio nella rimessa, che non è altro che una specie di capannone pieno di diversi attrezzi e scatoloni e altre cose indefinite, ammassate alla rinfusa. Lo spazio disponibile è riempito da casse piene di pomodori maturi. Lo zio sta attaccando un fornello da campo a una bombola e la nonna sta portando lì vicino una pentola di alluminio grande quasi quanto lei.
«Aiutami con questa», dice, e corro ad afferrare uno dei manici. La pentola non pesa molto, ma è ingombrante. La poggiamo vicino al fornello. «Hai mai fatto la salsa?» Io scuoto la testa in risposta. «Imparerai a farla oggi, allora.»
«Vado a preparare il pranzo, continuate un po' soli?» Ci chiede dopo qualche ora di lavoro.
Leo e io facciamo cenno di sì: ormai la nostra è una macchina dagli ingranaggi bene oliati; sul pavimento ci sono già diversi vasetti e bottiglie di passata pronti per essere bolliti in acqua, per sigillarli, come mi ha spiegato la nonna. Mi asciugo il sudore dalla fronte con la manica della maglietta e continuo a girare la manovella della passapomodoro. Zio Leo aggiunge qualche pomodoro nell'imbuto e va a prendere una bacinella per sostituire quella degli scarti ormai quasi piena. Quando torna mi faccio coraggio e gli dico:
«Zio, sai il sogno di stanotte di cui abbiamo parlato a colazione?»
Spinge qualche buccia rossa nella bacinella nuova e mette da parte quella piena. Annuisce:
«Certo.»
Esito un attimo, poi confesso: «Non ho detto tutto alla nonna.»
Lui sorride. «È tuo diritto non farlo. Specialmente alla tua età.»
Lascio passare qualche minuto senza dire nulla, mentre il silenzio viene riempito dai rumori della manovella e dei pomodori macinati.
«Zio», dico.
«Hmm?»
«Cosa significa se ho sognato di quasi baciare una ragazza?» Chiedo, con un nodo in gola. Non aggiungo: e cosa significa se ho sempre desiderato farlo?
Zio Leo continua a lavorare, pensieroso per un attimo. «Potrebbe non voler dire nulla», dice, e quasi sospiro di sollievo, ma poi continua: «e potrebbe voler dire tutto. Dipende da te.»
Aggrotto le sopracciglia: non voglio queste stronzate. Voglio risposte. Se categoriche, meglio.
«So che l'hai chiesto a me perché credi che io sappia darti una risposta, ma la verità è che solo tu puoi dartela.»
«Il problema è proprio che non so darmela da sola.»
Leo sospira. «Se può aiutarti, di solito gente etero non si chiede se lo è: lo è, e basta. Non hanno bisogno di domandarselo, hanno conferme tutt'attorno a loro. Gente come me, invece...» inarca le sopracciglia. «Beh, per noi è un'altra storia.»
«Sono lesbica, quindi?» Sussurro.
«Non lo so. Ti piacciono le ragazze? Solo le ragazze?»
«Forse», dico in un soffio, e per un attimo non sono sicura che lo zio mi abbia sentito sopra il rumore della passapomodoro. Solo che non è un "forse"; mi sa che è più un "sì".
«Allora forse sì. Quello che ho imparato», dice lui dopo un po', «è che a prescindere dai nomi in cui ti puoi identificare e dalle categorie che possono essere utili per capirti, tu sei tu. Sei Francesca, e finché ti basterà questo non avrai bisogno di altro.» Esita, poi aggiunge: «Lasciati libera di sentire ciò che senti, e dei nomi preoccupati dopo.»
«È quello che hai fatto tu?» Chiedo, e mi risponde ridendo.
«Oh, no», dice tra gli strascichi della sua risata. «Posso darti questo consiglio proprio perché ho voluto anch'io tutte le risposte subito, proprio come te.»
Scuoto la testa e sorrido poco prima che la nonna arrivi a dirci di sospendere un attimo la catena di montaggio e mangiare qualcosa di veloce per pranzo.
Quella sera, quando salgo in camera dopo cena, il cuore mi batte nel petto così forte che sembra voler fuggire dalla sua gabbia. Non so se voglio sognare di nuovo Lavinia e se voglio riprendere da dove ci eravamo lasciate, a un soffio dalle sue labbra. Che poi, nei sogni funziona davvero così? Si può riprendere da lì, come una videocassetta interrotta e fatta ripartire, ed evitare imbarazzi o silenzi di disagio? O magari si può riavvolgere il nastro e andare indietro; cosa farei, in quel caso? Cercherei di baciarla di nuovo? Se la sognassi ancora riuscirei a raccogliere abbastanza coraggio per finire ciò che ho iniziato?
È presto, ma mi infilo nel pigiama (tanto non devo andare da nessuna parte, e vorrei evitare di addormentarmi vestita come ieri sera), poi mi lavo i denti e apro la finestra lasciando entrare la sera e le solite cicale; stasera sembra ci sia pure qualche rana che gracida pigra. Ripeto ogni mio gesto di ieri sera, mi porto il libro a letto per leggere qualche pagina. E, come evocato da quei gesti quasi rituali, mi addormento e—
cammino in un prato che è quasi un cielo verde, con fiori blu come costellazioni di stelle che conosco solo io. Muovo le dita, assicurandomi di essere in controllo delle mie azioni. Sì, sono di nuovo qui ed è un sogno lucido. Il cuore mi tamburella veloce nelle orecchie. Do un'occhiata in giro e poi mi alzo in volo per osservare meglio i dintorni.
«Lavinia?» Chiamo. In risposta sento solo la mia eco e il vento che la porta via. «Lavinia, ci sei?» Continuo a chiamare mentre mi dirigo verso la casetta dal tetto rosso. Forse è lì che mi aspetta.
Volo il più veloce possibile e salto a terra davanti alla porta. Inspiro a fondo prima di aprirla, ma quando lo faccio la trovo vuota: muri spogli e pavimenti sgombri. Nessuna traccia né di lei, né della pasticceria che ha evocato ieri. Esco dalla porta, la chiudo e mi concentro. Forse funziona come con il cibo: forse se ci penso abbastanza intensamente comparirà per magia. È il mio sogno, no? Lei è parte della mia immaginazione, no?
Strizzo gli occhi, chiudo i pugni. E apro di nuovo la porta. La casa è ancora vuota, desolata. Mi concedo un urlo frustrato e mi accascio a terra.
«Lavinia», chiamo, sconfortata. «Dove sei? Perché non sei qui con me?»
È allora che noto che a terra, al centro della stanza, c'è qualcosa. Mi alzo e vedo che è una polaroid con il dorso verso l'alto. La raccolgo e la giro: è un ritratto a mezzobusto di Lavinia. Sorride. Un vestito con fantasia a girasoli su sfondo nero e spalline sottili le scopre le spalle chiare spruzzate di lentiggini e le braccia morbide, lascia intravedere la curva della scollatura. Dietro di lei qualche pianta fiorita, forse un oleandro. Tra tutti quei fiori è lei a sbocciare sgargiante. Piego la foto a metà e la infilo nella tasca posteriore dei miei jeans. Vorrei portarla con me nel mondo reale, per guardarla appena ho bisogno di sorridere.
«È questo il meglio che puoi fare, eh», dico alla casa. «Dov'è lei? Tu lo sai?»
Non serve nemmeno che mi concentri di nuovo: dal soffitto cade un bigliettino. Lo apro, dice solo "NO". Sospiro.
«Va bene lo stesso. Apprezzo il tentativo.»
Mi distendo sul pavimento fresco e allargo gambe e braccia.

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Come uscita da un sogno
Genç KurguÈ l'estate del 1999, Francesca ha 16 anni ed è costretta a trasferirsi da sua nonna per un mese in uno sperduto paesino della campagna in provincia di Verona. Quello che si preannuncia l'agosto più noioso di sempre si rivelerà invece per lei, grazie...