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Una mattina mi sveglio e mi trascino a fatica giù dal letto. In cucina ci sono tutti.

«Buongiorno, bella addormentata», esordisce zio Beppe. Alzo gli occhi al cielo.

«Buongiorno», dico, non necessariamente in risposta.

«Ti aspettavo», dice Leo. «Domani vado via.»

Alzo la testa dalla tazza di tè che la nonna mi ha posato davanti.

«È già sabato?» Chiedo. Lui annuisce. Oh no. Ho sprecato gli ultimi giorni deprimendomi per la storia di Erica invece che passarli in compagnia dello zio. Ora chissà quando lo rivedrò.

«Volevo fare un giro in auto, dopo pranzo», continua. «So che non sei stata bene negli ultimi giorni, ma...ti va di venire con me?»

«Sì!» Rispondo grata senza nemmeno il bisogno di sapere dove andremo, e sorrido per la prima volta da giorni.


Quando scendo al piano di sotto, vestita del mio abito preferito in tela indiana nera e con i bottoni davanti per tutta la lunghezza, la nonna mi avvisa che lo zio mi sta aspettando in auto; lo raggiungo e salgo.

«Stai proprio bene», mi dice appena mi vede, e indica il collarino di plastica nera che ho al collo. «Molto trendy.»

«Grazie», dico, e lui mi sorride e fa:

«Guarda», poi cerca qualcosa nel cruscotto davanti a me e mi porge quello che sembra un giornale fatto in casa, fotocopie tenute assieme da qualche punto di cucitrice. È aperto a una pagina con due colonne: lo zio mi indica quella di destra prima di mettersi alla guida.

«Oggi andiamo qui, dai miei amici», dice, poi fa partire l'auto e mentre cominciamo a muoverci piano leggo ciò che c'è scritto:

Siamo un gruppo di giovani amici e amiche gay e lesbiche, parlando fra di noi, in compagnia o al bar abbiamo scoperto che un singolo problema era invece un problema di tutti; confrontandoci in faccia abbiamo visto che dentro agli occhi c'era tanta voglia di esprimersi. Se anche tu, non hai ancora trovato qualcuno con cui confidarti o esporre i tuoi problemi, il nostro "cuore" è aperto a te...

Ci troviamo ogni sabato pomeriggio dalle 15.00 alle 18.00 circa.

C/O la sede dell'Arcigay-Arcilesbica di Verona

(Pink Queer Magazine, n.15, mag/giu 1996, pag. 4. Pink Queer era la fanzine autoprodotta di Arcigay-Arcilesbica di Verona. Nonostante il racconto sia ambientato nel 1999 mi sono concessa una libertà letteraria e l'ho voluto includere nel racconto, presumendo che tali incontri siano continuati a distanza di tre anni. PinkQueer è consultabile gratuitamente al sito di Uranus, l'archivio Lgbti+ di Verona, NdA)

Sotto all'annuncio c'è il disegno di due coppie, una di due donne e una di due uomini, abbracciate tra di loro.

«La nonna non sa che andiamo a Verona», spiega lo zio quando vede che alzo gli occhi dal foglio. «Non sa nemmeno che cosa ci andiamo a fare.» Esita. «Non posso parlare di certe cose con lei e gli altri due in quella casa, ma volevo portarti là per farti vedere che ci siamo. Che ci sono posti dove possiamo essere noi stessi. E ce ne saranno anche a Milano, ne sono sicuro.»

Usciamo dalla campagna ed entriamo in città nel giro di mezz'oretta; lo zio guida sicuro, come se conoscesse la strada a memoria, e imbocca stradine poco conosciute delimitate da case dipinte da colori caldi, rosa, senape, giallo chiaro. Da quando siamo entrati in città mi guardo attorno senza sosta, le braccia incrociate appoggiate al finestrino aperto. L'aria calda mi scompiglia i capelli e il sole mi colpisce in pieno viso. Lo zio ha fatto partire una cassetta dalla sua autoradio; sono tutte canzoni straniere che non riconosco, ma chiudo gli occhi alla musica e al vento e al silenzio leggero tra di noi, senza bisogno di parlarci per forza.

«Siamo quasi arrivati», mi avverte a un certo punto, e comincia a cercare parcheggio. Quando lo trova spegne l'auto. Un cartello poco davanti a noi mi dice che quella è via Santa Chiara.

«Come ti senti?» Mi domanda mentre stacca l'autoradio dal vano e la ripone sotto il suo sedile. Anche la mamma lo fa quando se ne ricorda: "Giusto per sicurezza, non si sa mai che faccia gola".

«Sono un po' nervosa», gli confesso dopo averci pensato un attimo.

«Lo ero anch'io, quando ho partecipato per la prima volta a qualcosa del genere.» Mi appoggia una mano sulla spalla, rassicurante. «Ci sono io con te, conosco la maggior parte delle persone presenti a questi incontri. E se non avrai voglia di parlare», aggiunge, «non serve che tu lo faccia. Puoi anche solo ascoltare.»

Scendiamo, arriviamo davanti a quella che sembra una casa anonima, numero 7/a, con una porta di legno sovrastata da un balcone di ferro battuto e una serie di citofoni alla sua destra. Lo zio suona il campanello e ci viene aperta la porta. Saliamo le scale ed entriamo nell'appartamento.

Restiamo ore all'incontro, ma sembrano minuti. Vedo una coppia di giovani donne tenersi per mano e le guardo baciarsi per qualche secondo di troppo: una ha i capelli alle spalle e l'altra corti, maschili; entrambe indossano delle magliette bianche coordinate con la scritta "orgogliosamente lesbica 365 giorni all'anno". Ascolto un ragazzo con l'orecchio destro forato raccontare della reazione della sua famiglia quando ha detto loro di essere gay; l'uomo che gli siede affianco e che indossa pantaloni di pelle persino con questo caldo annuisce, serio, mentre lo ascolta. Un altro ragazzo con le mèches ai capelli e gli occhi tristi racconta di non sapere "da che sponda stare" e una donna sulla cinquantina vestita di rosso e con l'aria da matriarca gli dice, "fiol (figlio, NdA) mio, la bisessualità esiste". Una ragazza con i capelli corti in un angolo ascolta in silenzio e si tira giù di continuo l'orlo della minigonna; non appena si crea un'apertura nel discorso racconta che quella è la prima volta che ne indossa una fuori casa, e parte un applauso che la fa arrossire.

Poi arriva il turno di una ragazza con un anello al naso che avrà avuto vent'anni. Racconta di essere innamorata della sua migliore amica, che credeva che anche lei provasse lo stesso ma che avesse troppo pudore di dirlo, e che quando si è trovata il ragazzo il mondo le è crollato addosso. Ascolto attenta quel dolore che sembra tanto il mio con il cuore che mi batte furioso nelle orecchie, e appena c'è un momento di tranquillità prendo il coraggio di avvicinarmi a lei.

«Ciao», dico, senza fiato. «Non mi conosci, ma so esattamente come ti senti.» La abbraccio di slancio e dopo un istante di sorpresa mi stringe forte senza una parola. Sento le sue lacrime bagnarmi la spalla e ne verso anch'io qualcuna sulla sua.

Quando usciamo di lì mi sento come se fossi ubriaca, la testa leggera e una lieve vertigine che mi accompagna fino in auto. I muscoli delle guance mi fanno male da quanto ho sorriso. In testa danzano parole e immagini come pezzi di vetro sgargiante in un caleidoscopio in costante movimento.

«Allora, com'è stato?» Mi chiede lo zio dopo un po' che siamo in viaggio verso casa della nonna.

«Bellissimo», sussurro, e ho la sensazione che non riuscirò mai a ringraziarlo adeguatamente per tutto questo.

Come uscita da un sognoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora