"I wanna stay up all night and jump around until we see the sun. I wanna stay up all night and find a girl and tell her she's the one.."
«Maryyy!» la porta della mia stanza si apre di colpo. Mi voltai, stoppando la musica che scorreva dentro le mie cuffiette.
Scocciata, rispondo.
«Che vuoi mamma?» nessuno doveva interrompermi quando ascoltavo musica, soprattutto quando avevo le cuffiette. Era una cosa fastidiosa.
«Se non l'hai ancora notato, sono le sei passate e devi andare a lavoro!» annuisco. «Io vado a fare la spesa, ci vediamo stasera!» detto questo esce sbattendo la porta.
Poso le mie cuffiette nella borsa, insieme al cellulare ed esco da casa.
Direzione: bar.
Sì, lavoravo in un bar. Ho diciotto anni e ci lavoro da, ormai, un anno. Mi pagano dieci sterline a settimana, e non possono andare bene per una ragazza che vuole guadagnare per affittare un appartamento nella periferia di Londra.
La situazione mi andava bene all'inizio, ma ora quei soldi per me sono davvero pochi.
Devo guadagnare di più per poter diventare una cantante.
Sì, era il mio sogno, ma qualsiasi cosa me lo impedisce.
Primo, i miei genitori. Mia mamma mi ripeteva sempre che non dovevo farmi castelli in aria, mio padre diceva che dovevo cercarmi un lavoro serio e che cantare era solamente un divertimento.
Secondo, a scuola mi hanno sempre presa in giro. I miei compagni mi dicevano sempre che avevo una voce da gallina, che cantare non faceva per me.
Ma loro non capivano che quelle parole mi ferivano più di qualsiasi gesto.
Dovevo essere forte. Avevo diciotto anni finalmente.
Io, Mary Anderson, avrei realizzato il mio sogno un giorno, e sarei stata la ragazza più felice della terra.
Arrivata al bar, salutai la mia amica-collega Charlie e, una volta posata la borsa, mi legai il mio grembiule bianco alla vita e mi posizionai dietro al bancone.
Iniziai ad uscire i bicchieri dalla lavastoviglie e posarli uno ad uno dentro un armadietto.
«Hey Mary, lì c'è un tavolo vuoto, vai a pulire tu?» annuii sorridendo.
Presi il vassoio con una pezza e mi avvicinai a quel tavolo.
Sembrava esser passato un uragano. Certi individui si sentivano a casa loro? Penso che nemmeno a casa loro lasciavano cartacce a destra e a manca, coca-cola versata sul tavolo e altra robaccia varia. A cosa servivano i cestini?
In silenzio iniziai a pulire, e il posacenere, posto al centro del tavolo, era pieno di sigarette, ancora fumanti. L'odore del fumo mi dava il voltastomaco.
Una volta finito di pulire, presi il vassoio e mi voltai di scatto, purtroppo buttando il contenuto addosso ad un signore, che poteva avere più o meno una cinquantina d'anni.
«Mi scusi!» presi un tovagliolo e iniziai a pulirgli il giubotto. Il signore mi prese il polso e mi strattonò.
«Ammettilo che l'hai fatto apposta!» ma che cavolo? Lo fissai attentamente: era tutto ubriaco.
«No, si sta sbagliando. Mi lasci stare il polso per favore.» riuscii a dire in un sussurro. Mi stava facendo male, tanto male.
Cercai con lo sguardo Charlie, che mi vide e andò a chiamare John, il capo, che corse subito in mio soccorso.
Il signore mi lasciò e io mi massaggiai il polso e, scossa, mi sedetti su una sedia lì vicina. Charlie mi si avvicinò.
«E' meglio se vai a casa.»
«Ma no, devo lavorare.»
«No, faccio io il tuo turno. Ti vedo.. scossa. Vai tranquilla, parlerò io con John!» le sorrisi, presi la borsa e andai fuori.
Ecco perché odiavo lavorare in quel bar. Correvo il rischio di imbattermi in persone fuori di sè, nonostante l'orario.
Volevo assolutamente cambiare.
Mentre tornavo a casa, presi le cuffiette, le infilai alle orecchie e premetti play alla mia playlist preferita, ovviamente One Direction.
Ecco, io volevo essere proprio come loro. Chissà cosa si provava a stare su un palco, avere milioni di fan in tutto il mondo, firmare autografi, essere fermato e fotografato in continuazione. Un po' li invidiavo, ma solo un pochettino. In fondo loro avevano realizzato il mio stesso sogno. Speravo un giorno di poterlo realizzare pure io, e raggiungere la mia assoluta felicità.
Mi piaceva il modo in cui coinvolgevano la gente, la loro simpatia, la loro bellezza, la loro semplicità e la loro stupidità, il modo con cui regalavano un sorriso alla gente..
'Magari potessi averle io tutte queste cose' pensai.
Aprii la porta di casa e mi trovai di fronte mio padre che passava per andare in cucina. Si voltò verso me.
«Quante volte ti ho detto che non devi stare con quelle cuffiette nelle orecchie?»
Cos'è che mio padre non capiva della parola diciottenne?
Potevo fare ciò che volevo.
«Mica ti fanno del male!» dissi acida. No, non avevo un buon rapporto con lui.
«Fanno del male a te. Dammi quelle cuffiette!» mi fece il segno con la mano.
«No. Mi servono!» feci per salire in camera mia, ma mio padre fu più agile a bloccarmi dal polso, strattonarmi e staccarmi le cuffiette dal mio cellulare, arrivando persino a romperle.
Rimasi incredula davanti quel gesto. Cosa aveva contro la musica? Cosa aveva contro il mio sogno?
Salii in camera mia senza dire niente, chiudendo la mia porta a chiave. Diedi un calcio abbastanza forte alla porta e mi stesi sul letto, ma solo per poco, perché la tenda che copriva la mia finestra iniziò a muoversi, a sventolare leggermente. Mi alzai per chiudere la finestra, ma lo spettacolo che mi si presentò davanti gli occhi me lo impedì.
C'era un cielo stellato.
Rimasi lì a fissare le stelle come un'ebete. Poi una in particolare attirò la mia attenzione: era una stella cadente.
Come una bambina piccola chiusi gli occhi, ed espressi il mio desiderio.
Infine, soddisfatta, mi misi sotto le coperte.
*SPAZIO AUTRICE*
Continuo la storia dopo 2 recensioni, grazie a tutti <3
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Like a star || Niall Horan
FanfictionLa protagonista di questa storia sono io; mi chiamerò Mary Anderson. Ad un tratto si sveglia e scopre che i 'one direction' non esistono e allora fa delle ricerche su di loro ma succede qualcosa.. Non vi dico nient'altro e vi lascio alla storia, ci...