Capitolo 41

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«Sto bene», borbotta con voce un po' strascicata non appena mi vede.

«Non si direbbe». Il mio sguardo cade sulla flebo attaccata al suo braccio destro.

Gli sfugge un ghigno che si trasforma immediatamente in una mezza smorfia.

«Non ti muovere», lo avviso preoccupata, mentre mi avvicino al suo letto. Mi prenderei a calci per questo. Non dovrei essere così per lui. Non dovrei neppure interessarmi a lui. 

«Sto bene, davvero. Sono solo stufo di essere qui e ho fame. Ma grazie». Me lo dice come se volesse liquidarmi. So benissimo che l'ultima volta che ci siamo parlati sul serio, abbiamo litigato. Il giorno dopo San Valentino.
Eppure, è come se la rabbia mi fosse passata, lasciando il posto solo alla preoccupazione. Forse mi ritornerà quando lui sarà di nuovo in forma e potrò insultarlo per le cose che ha detto a Nadia.

Dopo qualche istante, aggiunge: «Tu sei sicura di stare bene? Forse avresti dovuto farti controllare anche tu». Fa scorrere il suo sguardo sul mio corpo, come a volersi assicurare che io non abbia niente.

«Sto bene, non ti preoccupare», replico decisa, «Ti serve qualcosa?».

«Non serve che tu rimanga qui. Fra un po' mi dimetteranno, tempo di finire l'antidolorifico. Posso chiamare», per un attimo ho l'impressione di sapere che nome sta per dire, «qualcun altro per portarmi a casa». Ammetto che è un'altra pugnalata che mi arriva dritta al cuore.

«Alex, non mi costa niente. Abitiamo a un metro di distanza, ricordi?», replico intestardita, «Ma se vuoi, puoi chiedere a qualcun altro, anche se non sarebbe affatto logico».

Lui annuisce e poi aggiunge con un mezzo sorriso: «Avrei preferito non fossimo venuti col tuo macinino».

Per un attimo lo fisso senza dire niente, poi alzo gli occhi al cielo sbuffando: «Vedo che l'idiozia non ti ha abbandonato, come ha fatto invece il tuo dito». 

«Credimi, il mio dito non mi ha abbandonato. E sono pronto a dimostrartelo, quando vuoi», mi fa l'occhiolino prima di aggiungere, «Queste mani fanno sognare anche così». Non mi sfugge il suo tono malizioso e la sua voce profonda mi fa rabbrividire. 

 «Sì, sono certa che è quello che ti dici sempre da solo». La mia risposta lo fa sghignazzare divertito. 

«Dobbiamo avvisare i tuoi genitori, vorrebbero saperlo», aggiungo cambiando discorso.

«No, non sono un bambino».

Alzo immediatamente gli occhi al cielo per l'ennesima volta. Mi verrà un tic a furia di ripetere questo gesto ogni volta che sono in sua compagnia. 

«Non posso mica dirgli di tutte le volte in cui mi faccio male». 

«Solani, piantala. Devono saperlo, ok? Sei in ospedale. Gli puoi dire che stai bene, ma devi avvisarli».

Guarda fisso davanti a sé per alcuni istanti. «Sì, generale. Passami il telefono», borbotta stranamente arrendevole, dopo aver sbuffato un paio di volte, «Non ho la forza di discuterne, è solo per questo che ti sto dando retta». Gli allungo il suo cellulare e le nostre mani si sfiorano. Per un istante, lotto contro la tentazione di aggrapparmi alla sua mano sana. Vorrei abbracciarlo. E questa consapevolezza mi turba. 

«Parlaci tu, sono stanco», aggiunge dopo aver composto il numero.

Vorrei guardarlo storto, ma temo che il mio sguardo sia pieno di affetto. In modo inconsapevole e involontario. Che orrore. Così afferro il telefono e rispondo alla voce femminile dall'altra parte: «Signora Solani, buonasera. Sono Diana. Come sta?».

Lei mi saluta con stupore. «La chiamo solo per dirle che Alex è in ospedale, ma sta bene, è in forma. Ha solo rotto un dito. Ora sta riposando, ma mi ha chiesto di informarla». Dico tutto in un fiato così da non darle il tempo di preoccuparsi.

«Ha fatto un intervento? Ma siete in ospedale? Quale?».

«Siamo al Policlinico».

«Ma cos'è successo? Se è frutto di una qualche sua stupidata non so se voglio saperlo».

 «No, no. Non si preoccupi signora Solani, è stato solo un piccolo imprevisto. Domani sarà già a casa e lei potrà fargli visita con calma».

Alex sbuffa e, in tutta risposta, allargo le braccia. Cosa dovevo dirle?

«Anzi, in tutta onestà, sta già bene, quindi non si senta obbligata. Lui... sta bene», la informo scrutando attentamente il mio vicino. 

«No, allora verremo domani a trovarvi. Grazie per averci avvisati. Almeno questa volta non è precipitato da chissà dove». 

Quando riaggancio, lo guardo soddisfatta, mentre lui continua a essere imbronciato, per quanto stanco. «E' felice di essere stata informata. Fra quanto ti dimetteranno? Ti serve qualcosa?».

 «Fra un po' più di un'oretta. Ma vai a casa, non voglio che mi aspetti, hai passato qui tutta la giornata. Sei stanca e anche tu devi riposarti. Chiamerò Giorgio». 

Quando accenno ad allontanarmi, Alex afferra con delicatezza il mio polso, mentre in me, tra lo stupore, sento come un tripudio di fuochi d'artificio. Dannazione. 

«Grazie. A quanto pare, qualche volta hai ragione e faccio bene ad ascoltarti». E' sarcastico, ma lo sguardo è gentile. Fa scivolare la mia mano nella sua e me la stringe leggermente. Prendo un respiro profondo e l'odore del disinfettante ospedaliero mi entra nel naso. Il suo tocco, mi turba. Basta questo.  Non mollo i suoi occhi, mentre accarezzo la sua mano con il pollice: «Lo sai vero che io ho sempre ragione? Sono contenta che tu ti sia fatto curare. Vedrai che la tua mano guarirà presto».

«Ho già qualche idea di cosa fare appena tornerà a posto», replica malizioso.

«Porco».

«Sei tu che hai una mente perversa, io non ho detto niente», mi risponde con finta innocenza. Dopo qualche istante, aggiunge: «Mi dispiace per San Valentino e mi dispiace per come mi sono comportato dopo».

Sono sempre più stupita e mi viene il dubbio che abbia preso anche una botta in testa.
Sentirlo dire mi dispiace? E' una cosa che non avrei mai pensato potesse accadere. E anche le mie parole sono altrettanto sorprendenti: «Dispiace anche a me, ma so di avere le mie colpe. Anche se mi piacerebbe sapere perché hai parlato di...noi...di me, a Nadia». Ho deciso di essere sincera. 

«Sono stato molto, molto stupido. Ero arrabbiato, pensavo avessi rotto il nostro patto quando ho visto quell'uomo uscire da casa tua al mattino presto. Mi sono sentito...confuso».

«Era mio cognato!», ribatto esasperata. 

«Sì, ma non potevo saperlo. Mi sarebbe bastato chiedertelo, ma l'orgoglio mi ha frenato. E quando sono tornato a casa per preparami comunque per la nostra uscita, lei... lei era lì in lacrime ad aspettarmi con una bottiglia di vino. Voleva sfogarsi per l'appuntamento saltato e io volevo bere solo un bicchiere per rilassarmi e poi uscire con te, ma a un certo punto la rabbia mi è montata dentro e ho cambiato idea. Alla fine ho detto cose che non avrei dovuto», mi rivela stringendomi di più la mano, «Non ho scuse, sono stato uno stronzo».

«Sì, assolutamente», replico fredda osservando il suo viso pallido, «ma non credo sia il caso di discuterne ora, anche se vorrei. Ne parleremo quando sarai in forma».

«Negherò per sempre di averlo detto, ma ci tenevo a passare quella serata insieme. Ci sono stato di merda quando ti ho visto con tuo cognato e non so nemmeno io perché». Lascio andare delicatamente la sua mano e mi sento sempre più scombussolata. 

«Anch'io ci sono rimasta male». Anche se detesto ammetterlo. Ci guardiamo ancora negli occhi finché non mi sforzo di distogliere lo sguardo.
Mi rendo conto che stiamo camminando su un filo molto sottile e la paura di cadere ancora è tanta. Troppa. Nonostante tutto, la mia mente non vuole più cedere a questo sentimento che mi ha già incasinato la testa e il cuore per troppo tempo. 

Alter Ego - Quando le apparenze ingannanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora