Capitolo 1

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Esco di casa e non posso fare a meno di contemplare la perfezione della mia coda bassa. Le mie unghie smaltate in modo perfetto. Il mio tailleur perfetto. Io sono perfetta. E continuo a ripetermelo interiormente come un mantra. Devo essere perfetta. 

Poi il fatto che io sia perfetta solo in apparenza è un altro discorso. 

Ho capito già da un po' che l'aspetto esteriore, ahimè, conta eccome nella vita. Non parlo di bellezza. La bellezza svanisce. Si sa benissimo che, per citare Oscar, "Genius lasts longer than beauty". Quello che conta è apparire curati, soprattutto al lavoro, ovvero il centro della mia vita. 

Ovviamente, il talento conta molto e non voglio di certo negarlo, ma, purtroppo, la bravura e le capacità di una persona hanno bisogno di essere sostenute dall'apparenza. Dato che il mio fisico non è perfetto e le mie gambe sono decisamente troppo corte, posso solo che agghindarmi al meglio. 

Sono un'ipocrita superficiale? No. Non mi ritengo tale, voglio solo costruirmi un futuro solido. 

Sono cinica? Sì, purtroppo. 

Mi odio da sola per questi miei pensieri? Decisamente sì, così come non mi piace questa società delirante. Solo che voglio costruire il mio patrimonio da me e devo per forza mantenere questo atteggiamento. E' da anni che mi faccio il culo e, se questo implica il fingermi perfetta e recitare un ruolo, va bene, nessun problema. 
Non sono sempre stata così, ma diciamo che mi sono adattata al mondo. La superficialità, soprattutto in certi ambienti, conta eccome.
A quanto pare, ad esempio, se mi presento al lavoro con una maglietta di qualche band che adoro, non risulto autorevole come quando arrivo in tailleur e tacchi. Non so quante volte ho sentito ripetere queste cose nei vari training aziendali. Altro che casual Friday.
Fosse per me vivrei coi pantaloni della tuta e una maglietta larga e comoda, ma questo ovviamente non deve saperlo nessuno. Ma l'avrete notato tutti, no? A certi livelli, sono in pochi a non indossare camicie inamidate e giacche. Possono permetterselo solo i grandi maestri, persone come Steve Jobs o come Sergio Marchionne. 

Quindi prendo un bel respiro e mi lancio nel caos mattutino della città che si sveglia per andare al lavoro. Alle 7 e 30 in punto, come ogni mattina, sono in ufficio con la carica di chi ha già bevuto almeno tre caffè. 

Dicono che la caffeina non faccia bene, ma onestamente non mi importa: a me fa benissimo. 

Quando entro al lavoro indosso la mia maschera da precisina stacanovista. Ho studiato per anni per riuscire a trovare un bel posto di lavoro, ho fatto uno stage sottopagato, ma alla fine, dopo una serie di contratti a tempo determinato, il favoloso indeterminato è arrivato. Il mio obbiettivo da anni, anche se per molto tempo è stato come un lontano miraggio.

Ora, dopo 7 anni di onorato lavoro, alla giovane età di 32 anni, gestisco il mio team. E dato che il mio stipendio annuale è a sei cifre, mi sento ancora più motivata. La verità è che più che i soldi, mi interessa avere la libertà di lavorare come dico io, seguendo le mie idee, e questa libertà è data solo dai ruoli manageriali. 
Non darò molti dettagli, non vorrei mai dover affrontare qualche scandalo lavorativo, ma seguiamo una specifica linea di make-up all'interno dell'azienda e ci occupiamo delle relative strategie di marketing per il mercato europeo. 

E sì, sono fiera di me. Tanto per la cronaca, non sono solo apparenza: lavorativamente parlando, sono piuttosto brava. Dedico il massimo al mio lavoro e l'ho sempre fatto.
Il problema vero è stato entrare nel mondo del lavoro. Non importava quanto io fossi pronta a spaccarmi la schiena lavorando ben oltre il mio orario di lavoro. Non contava quanto fossi motivata. Per certi impieghi contava avere un elegante chignon e sembrare professionale. Uno smalto laccato. Una camicia inamidata abbinata ad un tallieur. Incredibilmente, contano le borse di marca che io all'inizio non potevo di certo permettermi. 

Disperata, mi ero presentata al colloquio per questa azienda tutta tirata a lucido. Quando mi ero guardata allo specchio, mi ero sentita ridicola. Non era nel mio stile, ma sembravo una donna in carriera. E ora è quello che sono veramente e guido il mio team come se fossi un esperto capitano che attraversa i sette mari. 

A volte mi detesto per tutta questa finzione, ma mi ha portato a ciò che volevo ottenere. E non fa male a nessuno, quindi in questo caso sono più che d'accordo con Machiavelli: il fine giustifica i mezzi.

«Di, ti va un caffè?», mi domanda Emma, la mia assistente, interrompendo, fortunatamente, la discussione con la mia coscienza. 

Mi ricordo quando qualche tempo fa si è presentata al colloquio. Ho visto la determinazione nei suoi occhi. La stessa determinazione che ho ancora io. Lei era tra le persone che l'ufficio Talent Acquisition voleva evitare e so benissimo che è perché è venuta vestita in modo semplice al colloquio. Aveva un paio di ballerine che non aiutavano a slanciare le sue gambette corte quanto le mie e i capelli scuri sciolti sulle spalle. 

Eppure ho chiesto di convocarla nuovamente. A me non interessa niente dell'apparenza degli altri, mi ha fatto una bella impressione così come il suo curriculum, quindi tanto basta. 
Il team HR aveva provato a farmi desistere, ma è bastato uno sguardo per farle tacere. E dopo il colloquio Emma mi aveva convinta, nonostante la scarsa esperienza. Mi aveva raccontato del licenziamento e di come per mesi avesse lavorato al locale della sorella, il Decimo. Un posto piuttosto conosciuto qui a Milano che io stessa ho frequentato alcune volte. 

«Certamente!», esclamo felice pregustandomi altra caffeina, «oggi ci aspetta una giornata intensa. Abbiamo la call con Tokyo fra un'ora e dobbiamo prepararci. Voglio che si rendano conto di come il nostro team sia il migliore e il più innovativo. Voglio che il prodotto venga lanciato prima in Europa che in Asia». 

«Parteciperà anche Mark?». 

Io storco il naso immediatamente. Mark è un idiota. E' il capo globale della nostra divisione, ma non capisce niente. Spesso mi chiedo come abbia fatto ad arrivare dov'è arrivato, ma poi mi ricordo che ha un sorriso perfetto e dei capelli biondi che incorniciano i suoi occhi verdi. Per dirla in gergo lavorativo, Mark sa vendersi bene. 
Il suo problema è che è sempre irreperibile. E quando c'è, ci soffia i meriti ogni volta che abbiamo un'idea brillante. Mark sa benissimo che punto a crescere ulteriormente: ad oggi sono a capo della divisione europea, ma non mi dispiacerebbe cambiare e questo lo fa tremare. 

La mia giornata trascorre tra un meeting e l'altro e alle 19 decido di tornarmene a casa. Emma è uscita poco prima di me. A volte mi chiedo se dovrei ridurre i miei orari: mi sento in colpa a vederla tornare a casa così tardi, ma nonostante le mie raccomandazioni non vuole ascoltarmi e cerca di andare via quando sa che la mia giornata è quasi al termine. Sono certa che lei farà grandi cose; quando ci confrontiamo è evidente che ha potenziale e che ha un'immensa voglia di imparare ed io, nonostante la poca differenza di età, sono pronta a farle da mentore. 

Una volta fuori dal lavoro vedo la mia assistente abbracciata al suo fidanzato e mi sfugge involontariamente un sorriso. Lui è un giovane asiatico molto elegante. Emma mi ha accennato qualcosa su di lui, Andrew se non sbaglio, ma in tutta onestà cerco di non dare più molto peso all'amore. Il romanticismo e tutto il resto sono cose che non rientrano più nella mia vita da qualche anno.
Da quando il mio ragazzo, quasi futuro marito, ha deciso di piantarmi con una delle solite banali scuse.
Mi ha spezzato il cuore per davvero, come non credevo fosse possibile, ma mi ha spinto ancora di più a buttarmi a capofitto nella carriera. Che, neanche a dirlo, è stata anche il motivo della nostra rottura. Pare che non a tutti gli uomini piaccia avere di fianco una donna che guadagna il triplo di loro; nonostante si parli tanto di pari opportunità, sono pochi gli uomini abbastanza sicuri di sé da non sentirsi minacciati da una donna in carriera. Assurdo. 

Alter Ego - Quando le apparenze ingannanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora