Capitolo 3

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Giulia mi aspettava sotto casa per fare insieme i due isolati che ci dividevano dalla scuola. Se era bel tempo come oggi, e se avevamo bisogno di parlare come oggi, percorrevamo quel piccolo tratto di strada a piedi.

Mi soffermai un attimo a squadrarla da capo a piedi, non indossava uno dei suoi soliti vestitini leggeri e colorati e non aveva i capelli sciolti, ma era in jeans e maglietta. Era la metà di febbraio, ma un caldo anomalo ci faceva tenere il giubbotto, il berretto e la sciarpa dentro lo zaino. Già si vedevano i primi fiori primaverili, margherite, viole e non ti scordar di me nei minuscoli pezzi di terreno incolto, che qualcuno chiamava aiuole, lungo il marciapiede. Giulia questa mattina portava i capelli raccolti in un codino alla base della nuca. Un paio di riccioli scuri come la notte, segno che non si era data da fare con la piastra per stirarli come faceva tutte le mattine, le incorniciava il volto.

«Perché mi stai fissando?» mi chiese, senza però riuscire a sostenere il mio sguardo. Non dopo la telefonata della sera prima.

Sospirai. «Perché questa non sei tu.»

«E invece sì. Sono stufa di uscire di casa in un modo, cambiarmi per essere me stessa per un tratto di strada che dura pochi minuti e poi tornare ad essere ciò che non sento di essere solo per essere lasciata in pace.»

«Giulia, ne avevamo parlato fino alla nausea.» le dissi, anche se sentivo il pianto nella sua voce.

«E invece non era il momento giusto, forse potrei aspettare di compiere diciotto anni. Magari sarebbe più facile.» Giulia mi piantò addosso i suoi occhi scuri, dilatati dalla paura come quelli di un cerbiatto davanti ai fari di una macchina.

«Non sarà più semplice, più cresci e più sarà difficile. Il tuo corpo sta già perdendo le forme dell'adolescenza»

«Lo so, credi che non lo sappia?» quasi urlò.

Giulia aveva quasi due anni meno di me, era molto piccola e gracile per la sua età e il suo corpo era ancora lontano, o quasi, dallo sbocciare. Frequentavamo la stessa scuola ma non la stessa classe. Qualunque ragazzo o ragazza del quartiere superate le medie frequentava quella scuola. Qualcuno, a dire la verità, aveva provato a prendere altri percorsi scolastici, ma era ritornato presto all'ovile sentendosi emarginato e fuori posto nella nuova scuola.

«Guarda!» mi comandò puntandosi un dito verso il mento.

Mi avvicinai con il viso verso il suo per meglio guardare il punto incriminato, anche se avevo già una mezza idea di quello che avrei visto. Dante aveva più o meno la sua età, quando aveva iniziato a cambiare.

La sua pelle mi sembrava comunque liscia e vellutata.

«Dai, non vedo niente di così evidente.» constatai.

Non sapevo se dovevo lasciare cadere il discorso che avevo tentato di affrontare già durante la telefonata della sera prima o se dovevo insistere.

Il rombo di una motocicletta in avvicinamento da dietro le nostre spalle scelse per me. Sperai con tutto il cuore che fosse mio fratello.

Non lo era.

Il bolide rallentò fino a che non accostò vicino al marciapiede dove noi eravamo ferme.

Un piede si appoggiò a non più di un centimetro dai nostri, era calzato in un anfibio nero e c'era, a seguire, un polpaccio anche troppo ben tornito fasciato da un pantalone di pelle nera. O finta pelle, mi auguravo. Non osai alzare lo sguardo. Sapevo già cosa vi avrei trovato. Un torace muscoloso dentro un chiodo di lucida pelle nera con un serpente rosso dalle fauci spalancate pronto a mordere sulla schiena. Il giubbotto era aperto sulla gola quel tanto che bastava per non nascondere alcun dettaglio del tatuaggio che aveva sulla gola. Non ero il tipo da non amare i tatuaggi, anche mio fratello ne aveva alcuni, ma in quel punto del corpo mi facevano quasi senso anche se erano qualcosa di innocuo come una rosa o un motivo tribale. Quello poi non aveva nulla di innocuo: erano due mani scheletriche che sembravano voler stringere in una morsa il collo che adornavano.

«Ma guarda chi abbiamo qui! La Bella e la Bestia nera» sghignazzò il suo conducente, «niente vestitino oggi?»

«Vieni, Giulia, lasciamolo perdere. È un mentecatto bastardo.» Presi la mia amica per un gomito e cercai di trascinarla avanti.

«Ehi, quanta fretta, non vi va di fare quattro chiacchere con il vostro amico Jacopo?» Il braccio destro di Carlos dei Kobra, nel frattempo, era sceso dalla moto e si era piazzato davanti a noi a gambe larghe.

«Tu non sei mio amico.» sibilai cercando di scansarlo. Avevo preso per mano Giulia e cercavo di tirarmela dietro.

«Ma il tuo amichetto non la pensa così. Non ti sei ancora stufata di portarti dietro questo mostro?» mi chiese indicando Giulia con il mento.

«Smettila, Jacopo. Sei uno stronzo e a noi non interessa proprio quello che pensi.» affermai decisa. Afferrai più saldamente la mano di Giulia e cercai di accelerare il passo. Ero riuscita quasi a superarlo, ma Giulia se ne stava lì imbambolata davanti a lui. Aveva gli occhi pieni di lacrime, sotto la pelle scura e vellutata del viso riuscivo a percepire il rossore che si faceva strada sulle sue guance.

«Sara, non è che lo penso solo io. Tutto il quartiere lo prende in giro, il tuo amichetto. Giulio, hai il cazzo tra le gambe, per Dio, è inutile che ti atteggi a signorina pudica.»

Giulia si divincolò dalla mia mano e scappò verso casa sua, sentire i suoi singhiozzi mi fece montare la rabbia.

«Comunque, Giulia, se vuoi un servizietto sono dispostissimo a fartelo!» le gridò lui.

Alzai il pugno per colpirlo, ma lui era già risalito in moto e mentre accelerava allontanandosi dalla mia portata mi raggiunse la sua risata di scherno nonostante il casco nero integrale che indossava.

Digrignai i denti, se avessi potuto, lo avrei ucciso e al diavolo i miei buoni propositi di tenermi fuori dal giro.

Di sicuro avrei reso contento Dante togliendogli di mezzo un avversario.

Sospirai, avviandomi a mia volta di corsa verso i nostri palazzi. Quest'oggi avrei saltato la scuola.

Don't kiss the VillainDove le storie prendono vita. Scoprilo ora