I medici mi avevano riempito di domande su ogni dettaglio di quella giornata che a me non era parsa diversa. L'unica cosa davvero strana non osavo menzionarla e avevano finito per tornare alla prima diagnosi. In una pausa tra una sessione di domande e l'altra mi ero resa conto che lo smartphone di Dante continuava a squillare solo perché era seduto così vicino a me che potevo sentirlo vibrare. Lui non gli prestava attenzione e mi ritrovai a temere quello che sapevo fare come quando Margherita mi aveva offerto i suoi orecchini.
Approfittai di un momento in cui non c'erano né i nostri genitori né i medici nelle vicinanze e cercai i suoi occhi. «Mostro, se devi andare, vai.» dissi. Lo avevo fermato d'istinto prima, senza pensare che il "lavoro" che mio fratello aveva abbandonato per correre in ospedale da me non era normale. Il suo sguardo si fece assente per un attimo poi tornò a fuoco e sapevo che questa volta era davvero lui a esitare. «Io sto bene.» gli assicurai. Mi lanciò un'occhiata scettica e io sorrisi. «È passato, non ho più mal di testa e mamma e papà rimangono qui.»
Si alzò in piedi per poi chinarsi per appoggiare la fronte contro la mia. Non aveva voglia di andarsene, lo vedevo, ma a giudicare da come continuava a squillare il suo telefono il suo capo lo stava cercando. Lo abbracciai, non lo ringraziai per essere venuto da me come lui non mi disse di chiamarlo se c'erano problemi, erano solo parole scontate. Lo guardai uscire dopo aver recuperato la chitarra mentre mamma rientrava accompagnata da uno dei medici.
Lei mi porse il mio smartphone, non mi ero nemmeno resa conto di non averlo più in tasca. Vibrò appena lo toccai e vidi i messaggi e le chiamate perse di Giulia che aveva visto l'ambulanza fermarsi vicino a casa nostra.
Feci partire la chiamata. «Sara, stai bene?» esordì la sua voce ansiosa. «Cos'è successo?» chiese senza darmi nemmeno il tempo di salutarla. Le comunicai quello che mi avevano detto i dottori per rassicurarla. Dovetti chiudere quando il medico si fermò vicino a me facendomi capire che doveva parlare con me e i miei genitori.
Quando era stata paventata la possibilità di essere trattenuta per la notte in ospedale in osservazione per ripetere altri accertamenti la mattina dopo, avevo deciso di sfruttare le mie capacità. Volevo solo tornare a casa mia.
Appena avevamo messo piede nel nostro appartamento avevo affermato che potevo andare a scuola come sempre e con un pizzico di convincimento i miei genitori si erano detti d'accordo con me. Destreggiarmi tra tutte le persone che potevo incontrare a scuola era stancante, ma non volevo stare a casa a deprimermi. Cercavo di fare del mio meglio per non convincere nessuno ed evitavo di guardare il mio interlocutore di turno direttamente negli occhi, ma non sempre mi riusciva.
Giulia sembrava aver già archiviato il pomeriggio che avevo passato in ospedale, io invece cercavo di usare le mie capacità il meno possibile perché non volevo riprovare quel mal di testa lancinante finché non era arrivato il momento di tornare a casa.
Aprii la porta della mia camera ed entrai prima di rendermi conto che c'era qualcosa di strano. Sbattei le palpebre più volte per abituare gli occhi alla penombra in cui era immersa la stanza mentre cercavo di ricordarmi perché non avessi tirato su la tapparella come al solito prima di uscire.
«Perché non sei a scuola?» Lasciai perdere la finestra quando la sua voce mi raggiunse. Non ricordavo di averla mai udita così, era strascicata ma non in senso buono.
«Dante?» chiesi esitante perché, anche se la voce era la sua, quello non sembrava il fratello che conoscevo.
«Non sei a scuola?»
«La prof di italiano non c'era, così siamo usciti prima.» dissi, dato che sembrava importante per lui conoscere la risposta.
Accesi la luce e lo vidi. Era seduto sul suo letto che io avevo trasformato in un divano. La moltitudine di cuscini in cui era immerso riusciva quasi a farlo sembrare più esile. Alzò la mano per proteggersi gli occhi dalla luce improvvisa. «Sara, dai.» biascicò.
Cercai l'altra mano immaginando cosa avrei trovato stretta tra le sue dita. La bottiglia di whiskey era piena solo per metà.
«Sono solo le undici e cinquanta.» gli feci notare.
Fece spallucce. «Da qualche parte nel mondo è sera. Ti ridò la camera.» disse. Si alzò in piedi barcollando e non potei fare a meno di chiedermi se quella fosse davvero la prima bottiglia di alcool che aveva intaccato.
«Dove pensi di andare?»
«Tolgo il disturbo. Non doveva esserci nessuno a casa oggi.»
«Non penso proprio.» Lo spinsi indietro sul letto-divano e gli tolsi dalle mani la bottiglia quando fece per portarsela alle labbra. «Ah, ah, ah.»
Rimasi di fronte a lui a braccia conserte mentre pensavo a quello che aveva detto, cercai di fare mente locale ma non riuscivo a pensare ad alcun anniversario che avesse potuto ridurlo in questo stato. Ricordavo solo che il giorno prima sarebbero stati due anni dall'ultima volta che era stato arrestato e portato al Beccaria, ma lui aveva detto "oggi" quindi a meno che non avesse confuso i giorni non era per quello che aveva iniziato a bere.
«Sembri mamma.» biascicò.
Sollevai un sopracciglio stringendo più forte il collo della bottiglia. Nostra madre avrebbe avuto un esaurimento nervoso e sarebbe scoppiata a piangere a vederlo in questo stato, io provavo la tentazione di colpirlo in testa con la bottiglia. Mi diressi verso il bagno e svuotai il liquido nel lavandino prima di tornare in camera mia con la bottiglia vuota in mano. Mio fratello era dove lo avevo lasciato.
«Era un ottimo whiskey.»
«Avresti dovuto pensarci prima di scolartene metà.» sbottai.
Trasalì al mio tono brusco e chinò la testa a fissare il pavimento. Sembrò in qualche modo rimpicciolirsi come se cercasse di scomparire, sembrava più giovane. Era come vedere un'istantanea di un momento del passato che mi ero dimenticata fosse esistito. Mio fratello non aveva sempre avuto quei modi da duro che lo facevano assomigliare a un conquistatore vichingo, quel fregarsene della giustizia come se il carcere, minorile o meno, fosse solo una seccatura temporanea. Sembrava come la prima volta che erano venuti a prenderlo a casa, un fulmine a ciel sereno. Io ero terrorizzata, anche se non capivo bene cosa stesse succedendo, la mamma era scoppiata a piangere e nostro padre aveva avuto uno scoppio d'ira. L'unico in tutta la sua vita, che non era stato rivolto agli agenti. E adesso mi stavo comportando in modo troppo simile a come fece papà allora.
«Vado a buttare la bottiglia. Non muoverti da qui.» dissi cercando di essere meno brusca di prima e mi diressi in cucina. Presi un sacchetto in cui infilarla, uscii dall'appartamento e scesi i piani di scale che mi avrebbero portato in strada.
Appena mi chiusi la porta del condominio alle spalle, fissai la bottiglia nel suo sacchetto e desiderai che si potesse tornare indietro a quando le cose erano più semplici, prima del Beccaria e prima di qualunque cosa fosse successa tra mio fratello e Jacopo. A quando eravamo una famiglia normale con un futuro normale.
Strinsi il collo della bottiglia e la sbattei contro la parete di intonaco sbeccato e grigiastro rovinato dalle intemperie. Ancora e ancora. Finché non restarono che vetri tintinnanti in una busta. Avrei potuto anche non usare il sacchetto per raccogliere i cocci, ce n'erano già sul marciapiede, ma io non volevo essere come quelli che li avevano buttati a terra. Cestinai tutto e finii di buttare fuori la frustrazione a voce. Non si aprì alcuna finestra, qui nessuno faceva caso se urlavi di rabbia soprattutto in pieno giorno, anche perché pochi potevano permettersi di passare le giornate a casa.
Mi girai per rientrare. Mi sentivo più calma quando rientrai nel nostro appartamento, anche se l'apprensione tornò a farsi sentire a mano a mano che mi avvicinavo alla mia camera. Avevo lasciato la porta socchiusa, mi avvicinai solo per controllare che mio fratello non se ne fosse andato mentre stavo urlando in mezzo alla strada poi mi tirai indietro.
Dante era sempre stato sfuggente, era un tratto della sua personalità controbilanciato dal suo istinto di mollare tutto se io avevo bisogno, ma questo era diverso. Non c'erano mai stati veri segreti o argomenti tabù tra noi prima del riformatorio.
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Don't kiss the Villain
RomansaSara ha una vita fatta di quasi: una quasi camera, una vista quasi cielo, una quasi sorella e un fratello quasi perfetto. È cresciuta in uno dei quartieri di Milano che la stampa definirebbe difficile ma per lei è solo casa, cercando di tenersi alla...