Capitolo 8

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«Com'è andata?» mi chiese Margherita alla fine della sesta ora dopo che entrambe avevamo già consegnato il compito di algebra al professore.

Nella classe alleggiava un sentimento di malcontento, la verifica non era andata per il meglio ai più a quanto sembrava.

«È andata!» borbottai, a mia volta di malavoglia raggruppando le mie cose e cercando di imboccare la porta d'uscita dell'aula prima che lei mi bloccasse per chiedermi ancora qualcosa.

Per essere andata, era andata. Di merda, ma era andata. Mi sarei messa a piangere durante il compito tanto non ci capivo niente. Se fosse servito a qualcosa e non solo ad attirarmi il sorrisetto stronzo del Sorcio. Ero stata tentata anche di consegnarlo in bianco, il compito, dopo che alla terza espressione di algebra mi era uscito un numero assurdo, ma anche in questo caso avrei fatto solo godere il professore.

«Ve li correggo il prima possibile.» ci aveva detto il perfido raccogliendoli tutti a uno a uno e mettendoli al sicuro nella sua borsa portadocumenti di pelle marrone. Quanto avrei avuto voglia di ficcagliela dove dicevo io quella cartelletta! Quando aveva preso il mio in mano mi aveva sorriso in maniera così dolce che mi aveva fatto quasi venire il voltastomaco. «Il tuo lo correggerò per primo, Sara, con molta attenzione.» mi aveva detto prima di metterlo al sicuro assieme agli altri.

L'insufficienza ora era assicurata, come la bocciatura. Uscii veloce dalla scuola, dimenticandomi addirittura di aspettare Giulia in atrio davanti al portone come facevo di solito, da tanto ero arrabbiata. Poco male, avrei aspettato che mi raggiungesse in cortile, magari respirando un po' di sana aria inquinata. Forse, il biossido d'azoto presente in percentuali elevate attorno alla scuola mi avrebbe anestetizzato il cervello e non avrei continuato a rimuginare su quel maledetto compito di matematica. Mi posizionai in un posto ben visibile dall'entrata della scuola, Giulia mi avrebbe visto di sicuro, comunque ero pronta a sbracciarmi a mani alte per attirare la sua attenzione. La mia attenzione fu attirata invece dai commenti di due mie compagne di scuola, che mi avevano raggiunto.

«Ma quanto figo è?» Quella che era più un'esclamazione che una domanda era stata pronunciata da Margherita, che a braccetto di Kumiko mi stava passando vicino.

«Bello e pericoloso.» le rispose lei. Kumiko non aveva alcun accento cinese, era nata in Italia da genitori che erano arrivati a Milano molti anni prima che lei nascesse. Era nella mia classe fin dalla prima come Margherita e parlava l'italiano meglio di me che avevo un marcato accento milanese. In effetti io le avevo perfino chiesto se la conoscesse, la lingua dei suoi genitori. Lei si era messa a ridere e mi aveva snocciolato un discorsetto cantilenante in cinese. Questo al primo anno delle superiori, non avevo più messo in dubbio la sua conoscenza della lingua madre.

Incuriosita dalle sue parole compii un mezzo giro verso l'esterno del cortile, ma tenendo sempre d'occhio la porta d'entrata dell'istituto per non perdermi la comparsa di Giulia.

Per poco non mi venne un colpo, con un paio di Ray-Ban aviatore a coprirgli gli occhi e a renderlo ancora più intrigante e una sigaretta tra le labbra che fumava con fare annoiato, Jacopo se ne stava appoggiato alla sua moto. Che diavolo ci faceva lui qui! Era da un bel pezzo che aveva finito le superiori.

Guardai di nuovo il portone, Giulia non si vedeva ancora. Forse era andata in bagno. Non era la prima volta che aspettava che tutti uscissero per poter andare nel bagno delle ragazze. Sospirai, prima o dopo qualcuno del personale scolastico l'avrebbe beccata facendole passare un brutto quarto d'ora. Per tutti era Giulio, e Giulio non era ammesso nei bagni delle donne.

Ma questa volta mi andava bene il suo ritardo, mi accodai alle due mie compagne di classe e mi avviai a mia volta fuori dal cancello. Decisa, raggiunsi la moto e il suo arrogante centauro.

«Cosa vuoi?» gli sibilai, non appena fui a portata di voce. Ignorando di proposito la mano di Kumiko che mi si era appoggiata sul braccio nel tentativo di fermarmi. Tutti conoscevano Jacopo e la sua banda. Tutti cercavano di stargli alla larga o quantomeno di non indispettirlo, i maschi almeno.

«Da te niente, bellezza.» mi sorrise lui.

Mi ritrovai a pensare che aveva ragione Margherita, era sul serio molto bello, se non fosse stato così stronzo.

«Vattene! Qui non c'è niente per te.» Avrei voluto fargli sparire quel sorrisetto dal viso con un sonoro ceffone. Questo diceva la mia parte razionale, quella irrazionale invece...

«Oh, come ti sbagli, tesoro mio. Qui c'è eccome cosa per me!» il suo sguardo era puntato oltre la mia spalla verso la fiumana di studenti che ancora stavano uscendo dalla scuola.

Mi sentii gelare e seguii il suo sguardo. Sul primo scalino il profilo di una figura esile coi capelli scuri e la pella scura si era profilato nel vano del portone in quel momento vuoto da altri studenti.

«Maledizione!» sibilai.

Don't kiss the VillainDove le storie prendono vita. Scoprilo ora