Il picchio che stava beccando con insistenza il tronco dell'albero davanti ai miei occhi si trasformò nel rumore del martello pneumatico che stava trapanando direttamente il mio cervello.Sentivo lontanamente le note dei Nirvana, quella melodia che doveva essere il suono della mia sveglia si mescolava con il rumore martellante che mi invadeva la mente. Spalancai gli occhi, ero madida di sudore e una forte nausea mi attanagliava lo stomaco. Il cuore mi batteva all'impazzata riverberandosi su tutto il corpo e in modo particolare sulle tempie. Chiusi gli occhi perché mi sembrava che la tenue luce biancastra della lampadina della notte attaccata alla presa di corrente vicino alla porta fosse un lampo fortissimo. Cercai di calmare il mio cuore impazzito con esercizi di respirazione.
Socchiusi piano un occhio e poi l'altro, la stanza, la mia camera da letto, mi sembrava estranea come se io la vedessi dal di fuori del mio corpo. I piccoli esagoni di luce colorata che vedevo al limitare del mio precario campo visivo e la voce di Kurt Cobain che mi arrivava ovattata e lontanissima mi spaventarono facendomi credere di essere morta e che fosse la mia anima che volteggiava sopra il mio corpo freddo nel letto ad avere quelle sensazioni. Allungai una mano e la posi di fianco al mio corpo, il mio palmo sentiva in modo distinto la morbidezza del copriletto e la punta delle mie dita non aveva nessuna difficoltà a seguire il contorno dei piccoli disegni in rilievo.
Quindi ero viva. Sospirai. Buttai piano le gambe fuori dal letto e mi sedetti sul bordo. Un dolore lancinante mi perforò entrambe le tempie. Mal di testa, ecco cos'era tutta questa sintomatologia. Per me era un evento raro, io che non soffrivo di emicranie nemmeno quando avevo il ciclo. Mi alzai piano, barcollai e mi diressi verso la cucina. Dovevo assolutamente prendere qualcosa se volevo andare a scuola. Misi a scaldare il latte e aprii il cassetto dove c'erano i medicinali più comuni. Due compresse di aspirina erano quelle che facevano al caso mio. Quasi sorrisi pensando che Dante si sentiva spesso così dopo una sbornia.
Mi sedetti al tavolo con la luce spenta e gli occhi chiusi aspettando che la medicina facesse effetto e cercando di non vomitare aspirina e latte.
Quando finalmente il dolore si attenuò trasformandosi in una sensazione cupa nella scatola cranica appena al di sotto dei bulbi oculari e la voglia di vomitare era diventata una leggera nausea, osai alzarmi.
Mi vestii e sistemai per la scuola con una lentezza da bradipo, io che facevo tutto di corsa, per la paura che il mal di testa mi tornasse forte.
«Non hai sentito la sveglia stamattina?» mi chiese Giulia non appena mi vide uscire dal portoncino del condominio.
«Mi sono svegliata con un'atroce mal di testa.» le dissi per spiegare il mio ritardo e la mia lentezza mentre ci incamminavamo verso la scuola.
«E ora è passato? Hai preso qualcosa?»
«Un paio di aspirine. Va un po' meglio, ma non direi che sia proprio passato.»
Il ronzio cominciò alla fine della seconda ora accompagnato da una tensione posta subito dietro gli occhi. Scossi la testa da un lato all'altro nel tentativo di alleviare quel malessere e capire da cosa dipendesse quel ronzio, non lo sentivo con le orecchie, ma lo percepivo direttamente dentro la scatola cranica. Non era un ronzio come da vespe o zanzare, ma lo stesso rumore che si percepisce quando si passa sotto ai cavi della linea elettrica dell'alta tensione e la sensazione di tensione mista ad ansia era la stessa. Mi massaggiai le tempie e la cosa sembrò alleggerirsi.
Il Sorcio entrò in classe con fare baldanzoso con la pila dei nostri compiti in classe stretti al petto con la mano destra, mentre la sinistra sorreggeva la solita cartelletta portadocumenti di consunta pelle marrone. Era vestito peggio del solito. Una camicia grigio scuro su un paio di pantaloni grigio topo, entrambi avevano visto giorni migliori e avevano fatto poca conoscenza con la lavatrice.
«Bene, gente, vi ho portato i compiti corretti. Adesso, come al solito vi chiamerò uno alla volta e verrete alla cattedra così vi spiegherò i vostri errori e il perché del voto che vi ho dato.»
Non sapevo perché ogni volta dovesse dire questa tiritera, visto che a ogni consegna faceva così. Mi misi comoda sulla sedia aspettando il mio turno, lo sapevo che andava in ordine alfabetico e io avevo un po' di nomi prima di me nell'elenco.
Mi alzai e mi diressi verso di lui quando sentii pronunciare il mio cognome.
«Bene, Sara, eccoci qui.»
Mi allungò il compito e quasi mi sarei messa a piangere quando vidi il tre vergato in rosso a fine dell'ultima pagina della mia verifica.
Il Sorcio alzò il viso su di me, che ero in piedi al suo fianco, e mi fissò negli occhi pronto a godere del mio sconforto. Gli vidi il sorrisetto di sufficienza che sostava agli angoli della bocca. Lo odiavo, lui e la sua aria di superiorità.
Guardai prima il mio compito e poi lui.
«Ma, prof., ci ho messo tanto impegno. Sono sicura che almeno il procedimento di più di metà delle espressioni fosse corretto.»
«Il risultato, Sara. Il risultato.» disse lui.
«Pensavo che premiasse anche l'impegno, professore. Che il risultato fosse meno importante, se una persona aveva azzeccato il procedimento. La sufficienza, giusto per l'impegno.» mormorai, quasi me l'aspettavo sul serio quella sufficienza, anche se conoscevo bene il Sorcio.
Lo stavo guardando in viso e lui sosteneva il mio sguardo con aria beffarda, fino a questa mia ultima frase. Poi tutto cambiò. Il suo viso sembrò per un attimo cristallizzato, gli occhi vacui che non mettevano più a fuoco quello che gli stava davanti. Quindi batté le palpebre una, due volte e sembrò rianimarsi. Abbassò lo sguardo sul mio compito, frugò nella borsa portadocumenti e prelevò una biro rossa.
Lo vidi arrotondare la pancia del tre e allungare la linea superiore fino a che un fantastico sei comparve sotto la punta della sua penna rossa. Appose le sue iniziali a mo' di conferma sotto il numero e mi porse il compito.
Ero esterrefatta, presi i fogli e me ne tornai al posto.
«Bisogna anche tenere conto dell'impegno, non solo del risultato.» sentii Esposito mormorare quelle parole mentre me ne tornavo al posto.
Non capivo cosa fosse appena successo e non ero sicura che mi interessasse saperlo. La tensione, il mal di testa, i ronzii se ne erano andati e io avevo una bella sufficienza in matematica.
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Don't kiss the Villain
RomanceSara ha una vita fatta di quasi: una quasi camera, una vista quasi cielo, una quasi sorella e un fratello quasi perfetto. È cresciuta in uno dei quartieri di Milano che la stampa definirebbe difficile ma per lei è solo casa, cercando di tenersi alla...