Capitolo 11

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Va bene, la colpa era mia. Con la scusa dei patemi di Giulia, dell'arroganza di Jacopo e della sfuggevolezza di Dante mi ero completamente dimenticata di nonna Giuditta, ma il fatto era che, a mia discolpa, l'orario delle visite nella residenza per anziani in cui soggiornava era cambiato. Fino alla settimana scorsa non si poteva accedere fino alle diciotto e a quell'ora i miei genitori avevano già fatto entrambi ritorno dal lavoro. Quando si andava a trovare la nonna, poi si finiva per mangiare in qualche fast-food lungo la via di ritorno. Ora, per non so quali problemi organizzativi da parte della struttura che ospitava nonna Giuditta, l'orario di visita era anticipato alle sedici. Facendo conto che la casa di riposo era situata all'altro capo della città, aveva ragione mamma l'oretta poco più che ci separava dall'inizio delle visite era sul serio poca.

«Sei entrata in camera mia?» chiesi a mia madre sedendomi sul lato passeggero della sua sgangherata Micra bianca e allacciandomi la cintura. Ero curiosa di sapere cosa mi avesse regalato mio fratello, ero disposta anche ad accontentarmi di ciò che poteva avere visto lei appoggiato sul letto entrando in camera mia.

«No, perché? Fai sempre un sacco di storie, quando ci entro e tu non ci sei.» puntualizzò lei. Accese la macchina e ci mettemmo in strada.

«Chiedevo solo.»

Mangiai quello che la mamma mi aveva preparato fantasticando su cosa potesse essere ciò che mio fratello aveva depositato sul mio letto. Speravo ardentemente che non fosse uno dei suoi scherzi, l'ultimo risaliva a molti anni addietro a dire la verità. Non mi sembrava più il tipo e poi mi aveva detto che quello che mi aveva regalato mi avrebbe tirato su e ritrovarmi un ranocchio nel letto, come l'ultima volta, non era certo tra quelli che mi avrebbe allietato la giornata.

Finii di mangiare e mi misi a guardare fuori dal finestrino, il traffico era caotico come al solito, per raggiungere la dimora della nonna si doveva percorrere quasi tutto l'anello esterno di Milano.

Nonna ci accolse felice. Mi sentii in colpa a contare ogni secondo che passavo in sua compagnia perché continuavo a pensare al regalo di mio fratello. Sentii l'attenzione di mia madre su di me e smisi di fissare senza vederlo il letto della camera della nonna nella casa di riposo quando invece pensavo a cosa Dante avesse lasciato sopra il mio. Quando potei abbracciarla e dirigermi con mia madre alla macchina mi vergognai un po', avrei dovuto custodire gelosamente i momenti che potevo passare con lei, Giulia mi invidiava il fatto che io avevo ancora almeno una nonna.

Buttai le scarpe vicino alla porta d'ingresso di casa, non appena ne varcai la soglia e senza nemmeno andare in bagno mi fiondai verso camera mia.

«Ehi, cos'è tutta questa furia! Dimmi chi ti insegue che lo prendo a legnate io.» Mio padre stava giusto uscendo dalla porta della sua camera, che era dirimpetto alla mia, quando svincolai veloce oltre la porta che divideva la zona giorno da quella notte e mi fiondai nel minuscolo corridoio dove c'erano la camera da letto e il bagno.

Gli piombai addosso in modo così pesante che dovette allungare le mani per sorreggermi. Risi mentre ora stavamo traballando in due tra il muro e la sua porta aperta.

«Scusa, papà. Vado di fretta.»

«Ma va', non me ne ero nemmeno accorto.» Le sue parole e la sua risata mi arrivarono attutite perché avevo già chiuso la porta della mia camera lasciandolo fuori.

Mi appoggiai con le spalle alla porta. Sul mio copriletto rosa spiccava una macchia di colore quadrata.

Mi misi una mano sul cuore sentendo i suoi battiti accelerare. Sapevo di cosa si trattava. L'avevo desiderata per un po', ma poi il momento era passato. Ero cresciuta e quel desiderio era rimasto un caldo ricordo, come la ninnananna che mi cantava sempre Dante prima che mi addormentassi. Poi lui era stato arrestato e tutto era cambiato.

Mi lasciai scivolare lungo la porta e mi sedetti per terra, alzai le ginocchia e vi appoggiai il mento abbracciandole. In macchina avevo fatto mille supposizioni, ma mai avrei immaginato che si trattasse di questo. La mia eccitazione nel voler sapere cosa fosse il regalo ora era sedata dall'ondata di ricordi che mi avevano assalito quando i miei occhi si erano posati su quel quadrato rosso.

Chiusi gli occhi e sentii la voce calda di mio fratello. Le parole di Come as you are si stavano snocciolando nella mia mente come se lui fosse lì nella stanza con me, avesse la sua chitarra in mano e accompagnasse la canzone che cantava sottovoce e che mi aveva fatto da ninnananna per un milione di anni.

Mi alzai e mi avvicinai al letto. Sentivo gli occhi colmi di lacrime, di felicità per quello che mi trovavo davanti, di rimpianto per quello che rappresentava e avrebbe potuto essere e che invece il destino aveva deciso altrimenti.

Il cuore in rilievo inscritto in un teschio sembrava palpitare, se lo fissavi intensamente vedevi solo lui, ma quando sbattevi le ciglia il teschio disegnato intorno e un po' meno a rilievo era preponderante. Le figure del disegno, che erano al centro, erano di un rosso più scuro, sanguigno rispetto al rosso brillante della felpa che oramai avevo dispiegato del tutto.

Il nome della band, Nirvana, era vergato nella stessa tonalità di rosso del disegno e posto sopra a esso. Al di sotto invece era stampata un'altra parola, Nevermind, era il nome dell'album della canzone che era colonna sonora della mia infanzia e anche quello della tribute band in cui cantava mio fratello prima che la sua vita andasse a puttane. Forse lui e i suoi amici non l'avevano scelto a caso, Nevermind: non importa.

Mi strinsi la felpa al petto. Cosa significava sul serio quel regalo da parte di mio fratello?

Don't kiss the VillainDove le storie prendono vita. Scoprilo ora