19. This pain is just too real

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SEBASTIAN

Il dolore fisico non mi spaventava, era quella scossa che mi risvegliava e mi portava a vivere.

Il dolore mentale era pura agonia, mi soffocava fino ad uccidermi, fu proprio per questo che il primo mi aiutava a dimenticare.

Le persone intorno a me si agitarono, la mia Amira corse a controllarmi senza dare un minimo sguardo a Brodie.

Fiotti di sangue colavano via dalla mia gamba, mentre Brett era svenuto al mio fianco.

Inspirai l'aria che mi circondava e mi beai di quella sensazione di puro dolore; la parte della mia coscia colpita bruciava e pizzicava, aumentando quel ciclo infinito di sofferenza.

L'affiliazione corporea e psichica erano profondamente legate, una incideva sull'altra affievolendo e aumentando le derivanti conseguenze.

Alcune volte il dolore fisico poteva portare quello mentale a diminuire e nascondersi, mentre altre quello mentale poteva procurare un malessere fisico improvviso.

Ognuno di noi conviveva con entrambi, ma io più di tutti ne ero dipendente.

L'ambulanza in pochi minuti arrivò in nostro soccorso e subito si accorsero che la mia ferita non era così grave da essere mortale, ma molto pericolosa se avessi perso più sangue.

Di Brett non sentii nulla, solo che era stato portato in sala operatoria, ma poco mi interessava.

Dopo diverse ore finalmente potei uscire dall'ospedale, volevano tenermi almeno un altro giorno lì in osservazione, ma io rifiutai.

Odiavo gli ospedali, mi portavano alla mente ricordi bui che dovevano rimanere nascosti, altrimenti non sarei riuscito a resistere dal commettere qualche altra stupidaggine, ne sarei uscito completamente distrutto.

Quando arrivai a casa Dave mi aiutò a salire in camera, erano tutti preoccupati, presto sarebbe arrivata la polizia per ottenere la mia testimonianza sull'accaduto.

Mi sdraiai sul letto, volevo solo riposare, ne avevo un assoluto bisogno, così quando Dave chiuse la porta lasciandomi completamente solo, mi beai di quella sensazione di pura tranquillità e solitudine. Me ne nutrivo ogni giorno, mi sentivo in pace senza avere altre persone che mi parlavano, mi giudicavano, mi riempivano di complimenti. Ero io e basta.

C'era però anche un lato negativo nell'assoluto isolamento: ero solo.

Sarebbe potuto sembrare un pensiero insensato, in fondo era quello il significato stesso di solitudine, ma invece era una verità assoluta.

Come aveva affermato il filosofo Aristotele, l'uomo è un animale sociale, sin dal Paleolitico viveva in gruppi e con il passare dei secoli quest'aspetto umano non aveva fatto altro che svilupparsi. L'essere umano si sentiva propriamente tale quando era circondato da altri come lui, quando interagiva con i suoi simili. Ogni giorno sprecava la sua energia cercando di farsi acclamare, parlava, agiva e si affermava solo per il gusto della compagnia.

Per realizzare quella parte dell'uomo, bastava anche una sola persona ed era la stessa che io in quel momento stavo cercando con tutto me stesso. Una profonda parte di me sperava che la mia Amira aprisse la porta, si sdraiasse al mio fianco facendomi compagnia.

Questa però era solo un'illusione. C'erano giorni in cui tutto ciò che desideravo era lasciarmi andare alle emozioni, lasciare che la completa imperfezione si impossessasse di me. Era stancante fingere di non provare nulla, soprattutto perché io ne ero consapevole.

Desideravo fare un passo avanti, stringere la mano di Arabella e lasciarmi manipolare da lei. Come una sirena lei mi incantava tutti i giorni, e ciò mi portava ad affondare nelle oscurità dell'oceano in tempesta che era la mia mente.

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