7 - Cerotti e cicatrici

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"Nulla impedirà al sole di sorgere ancora,
nemmeno la notte più buia.
Perché oltre la nera cortina della notte
c'è un' alba che ci aspetta"
- Khalil Gibran


Quando strappai il mese d'agosto dal mio calendario, quasi mi emozionai alla vista della scritta verde settembre a caratteri cubitali.
Diedi un'occhiata al calendario e il mio sguardo si posò sul 6 settembre: il giorno in cui finalmente avrei abbandonato Los Angeles e sarei tornata a New York.

Ecco perché quei 5 giorni passarono lentamente.

Tra pratiche, documenti finanziari e riunioni con Colin, mi sembrò quasi che ci fosse un mese di mezzo, e non meno di una settimana, al mio ritorno a casa.
Eppure, il 6 settembre, alle 10 del mattino, mi trovavo puntualmente fuori all'aeroporto Kennedy, i miei tre gatti nelle loro gabbiette e tutti i miei bagagli.
Elizabeth, d'altro canto, se ne stava dietro di me, intenta a parlare al telefono con qualcuno.

In altre circostanze avrei fatto di tutto per origliare, essendo un'impicciona patologica, ma quella mattina avevo una strana sensazione dentro di me.

Sarà stato per il fatto che venivo da un volo di quasi 6 ore, durante il quale mi ero annoiata a morte.
Sarà stato per il sonno toltomi.

O sarà stato per quella sensazione che mi accompagnava da quando avevo preso in considerazione la festa di beneficienza di Drew Cranton, alla quale avrei dovuto dare una risposta definitiva entro questa sera, altrimenti mia madre mi avrebbe fatto una predica bella e buona.
Già alla festa del mio brand mi aveva fatto capire che ero una maleducata di prima categoria, poiché si deve sempre comunicare la propria risposta con largo anticipo.
Io solitamente mandavo al diavolo il bon ton, ma effettivamente mi sentivo una merda, poiché erano rimasti solamente 15 giorni alla festa.

«Non mi importa assolutamente niente se sono le 7 di mattina, dille di prendere le redini per questo mese, il tempo di occuparmi di alcune pratiche a New York e torno in men che non si dica»

Caspita, quando ci si metteva, Elizabeth sapeva impartire gli ordini meglio della sottoscritta.
Scommisi che stesse parlando con Audrey, la ragazza che si occupava di design e pubblicità.
Le stava comunicando esattamente ciò che le avevo chiesto, usando forse un po' troppo il pugno di ferro.

«Sarà meglio» terminò e chiuse la chiamata, sbuffando sonoramente, mentre aspettavamo che l'autista ci venisse a prendere.

La guardai da sopra la spalla e risi, vedendola ancora intenta a borbottare qualcosa di incomprensibile, come "mai nessuno che mi stia ad ascoltare".

«Elizabeth calmati, in fin dei conti l'hai chiamata alle 7 di mattina»

«Sai quanto me ne importi» borbottò e fece cenno all'auto che si stava fermando davanti a noi che ci trovavamo poco più avanti di dove si era fermata.

Mentre un ragazzo caricava i nostri bagagli e le gabbiette con i gatti nell'auto, notai qualche persona girarsi nella mia direzione e salutarmi, alcuni chiedendo addirittura un autografo o una foto, che non negai a nessuno.

«È sempre un piacere vederla, signorina Valentino» disse il ragazzo porgendomi la mano e aiutandomi a salire sul minivan.

Ricambiai il saluto e presi posto, seguita successivamente da Lizzy, che richiuse lo sportello e fece cenno ad Ernest, il nostro autista, di mettere in moto e dirigersi verso casa mia.
Accarezzai Salem immettendo un dito tra i fori della gabbietta e lui, in tutta risposta, mi leccò leggermente la punta del dito, facendomi il solletico.

«Com'era Los Angeles, signorina Valentino?» chiese Ernest, guardandomi dallo specchietto retrovisore.

«Calda. Fin troppo per i miei gusti».

Non d'amore, ma d'accordoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora