Canto XXVI

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Canto XXVI - Ove è illustrato come l'inferno è diviso in sette camere e si entra nella prima


Ci accompagnosse, quello domenicano,

Fra viscere del pianto e stridor di denti

Ch'io credetti essere versi da fagiano


O scrofa o cervo che sì si spaventi

Quando si vede presso sé il levriero.

Se tu fosti qui mi sentiresti a stenti


E abbiam da gridare lungo tal sentiero.

Io fui gettato, rammentate, per scolo,

Alla seconda cinta suso pel mistero


Che non mi riuscì di risolvere e con dolo

Ne ebbi purga, ma rischiai peggior sorte

Com'ebbe a illustrare il nipponico al volo:


"Noi qui diamo, a chi passò la morte,

L'estremo giudizio in settemplice prova.

Tu vedesti che, a ogni muro, avei tre porte:


Quella per cui all'altro vallo ci si trova

Ed è la più comoda ed è in salita;

Le altre son voragini cui convien che piova


Chi stagnò d'ignoranza, qual tu hai patita,

In teologia, per pigrizia o esterno fattore,

Che pur si pote salvare e noi la si aita,


Ma l'altra, abisso profondo, estremo orrore,

Qui conduce chi persevera contro natura."

Soffiavan vampe incandescenti nel calore


Ch'io non ne respiravo, cenerea l'arsura,

Che parea di stare in una grande forgia

Col batter di martelli e i sibili di cottura.


Mentre madidavo e mi afferravo la gorgia

L'atmosfera mi divenne gialla e bruna

E il rumore si fece più acceso dell'orgia


Dietro sette porte, chiavistellate ciascuna

E sovra esse svettava una incisione

In venoso marmo, con una dorata runa


Recante, in ogne lingua, sua destinazione.

"Non havvi" io chiesi "una sorta di limbo

Ove riposan gl'infedel di buona intenzione?"


"Tu già vedesti" Fu Gildas, radiante nimbo

Che da solo attorciava quel cupo orifizio,

"Quel loco, con i purgati disposti a corimbo.


Già percorso fu da un tale il precipizio

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