Canto XXIV - gli ultimi spiriti magni
Detto ciò che mi fece avvampar lasso
Lo viso che in giuso or marmo mira
E faceami sentir de saggezza casso,
Il quinto aggiunse "Lo cruccio che ti tira
Le membra alla terra è un ben prezioso
Poiché dentro ti alberga la divina ira
Ch'a megliorar porta l'abbisognoso.
Io lo so ben che non fui certo allegro
Quando il mio paese fu dal peccato roso
E mi doletti assai come foss'io l'egro.
Quanto dissi tu il troverai sanza fallo
In quel testo ch'illumina il tempo negro
Della Britannia ancor ch'era un tallo
Quando Cesar lasciò le nostre rotte
E già parea sentir il cantar del gallo
Che'l clero agì da Pietro l'infausta notte.
Gildas fui detto e ciò rivelo, amico,
Perché l'indovinello non val tali lotte
Che tu proseguirai nel mondo, ti dico:
Sarai novello apostolo e la novella
Di questo luogo più del tempo antico
Darai a chi la morte ancor non fella."
Tacque e andò la sesta, dal viso fiero:
"Compagno, la lingua, in te riconosco quella
Che si parla laddove io fui nata invero.
Tu sei latino qual fui e Parma genitura
L'alma mia che pel soggiorno mio intero
Prega e spera che quel loco di sventura
Si ravveda e chiedo, come a molti feci,
Se mai raziocinio e bontà ancor perdura
In quelle terre che nel millequattrocentodieci
Non mi cullaron la morte per iniquo esilio
Che a Verona condussemi il tiranno in veci
Dei Visconti: Othobuon Terzo, di Nicolò filio
Ch'ora ho diletto a dir meritamente giacere
In eterno supplizio come mostrerà Vergilio.
Dimmi se diritta via acquistò, fa piacere!"
Ma vedendo il mio indugiar, la dama, il viso
Coprì e tacque, dell'emozioni in potere.
Ahi Parma, di fraudolentia ostello inviso!
Calisto Tanzi ha fatto di te superbo strupo
E tu non lo cacciasti che di lui eri intriso.
Troppo tardi, come è solito, quell'infame lupo
Scontò la pena e mai del tutto a pieno
Che per quarant'anni fe la tana, il cupo.
E Guido Fanelli, ch'Ippocrate tradì non meno,
Assolto troppo presto come Rocco Marroni
Che lasciasti libero, quel barbaro del Reno,
Ch'intedea far a Roma i lanzichenecchi doni
Con non men picche o spranghe delle stesse.
Così pensavo e il settimo nota l'afflizioni
Che mi rendean viso teso e le vene spesse
Che lo portò a dire con fare gentile:
"Io so che tu pensi e ti struggi a chi tesse
Le trame orride che il tuo loco fa vile.
Io pur ho disperato con gravi gesti e affanni
Per la storia del mio paese tanto incivile
Nei confronti di quella fede che per tanti anni
Ha calpestato, come parlo nel mio "Silenzio".
Io convertii e pur tu che non ti danni
Leggi la mia storia in cui grave sentenzio
Dal dì che il terremoto convertì lo spirto.
Questo ti chiedo e non riparar nell'assenzio
Benché di tristume il cammino ti è irto.
Non sai che la speranza è la più gran cosa
Fra tutte le virtù teologali ed è il mirto
Adatto a chi ha stanca l'alma sdegnosa."
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Una Piccola Commedia
PoesieLeggendo l'Eneide l'autore si addormenta e finisce in un terribile oltretomba scritto in terzine ma anti-Dantesco, dove non sono i morti a essere puniti, ma i suoi peccati letterari. Il buon Virgilio, come al solito, recupera la sua funzione di guid...