CAPITOLO 1

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Fuori il sole splendeva alto, inondando tutto il regno di una luce incantevole, intrisa di calore che si posava sui visi delle persone mentre camminavano frettolosamente.

Una leggera brezza soffiava da ovest mentre sul terreno volavano lente molte foglie marroni e gialle, ricordando che da poco era autunno.

Mentre il mondo girava così beatamente, io mi ritrovavo come ogni giorno dentro il caffè della mia migliore amica Aileen a sorseggiare lo stesso tè, attaccata al bancone a chiacchierare, forse più a lamentarmi, di fronte alla mia amica che, invece, non poteva rimanere ferma ad ascoltarmi a causa del via vai della clientela che, specie a quell'ora della sera, arrivava da ogni parte.

«Aileen! Mi stai ascoltando oppure no?» le stavo ripetendo per l'ennesima volta un discorso.

«Scusami, Alisa, ma oggi la clientela era tanta e mi hanno letteralmente prosciugato l'anima» fece una leggera risata.

Tra le due, lei era sempre stata quella più ottimista, sempre con il sorriso sulle labbra. Aveva corti capelli neri con gli occhi di un castano ramato, una corporatura molto esile, mentre io, che la superavo di almeno dieci centimetri, avevo lunghi boccoli biondi con gli occhi verde smeraldo e con una corporatura più robusta grazie anche agli allenamenti quotidiani.

Aveva le guance leggermente scavate, come promemoria del fatto che non mangiava abbastanza, nonostante cercassi in tutti i modi di spronarla. Il naso era piccolino, ma ben proporzionato al resto del volto.

«Non dovresti lavorare così tanto, altrimenti arriverai alla vecchiaia con più rughe di quante ne dovresti avere.»

«Lo so... ma sai, con la morte dei miei genitori...»

«Lo so...»

I genitori di Aileen erano morti due anni prima a causa di un incidente d'auto e le avevano lasciato la caffetteria. Lei, invece di rivenderla come avrei fatto io, l'aveva tenuta e adesso ci lavorava a tempo pieno, tralasciando l'università e tutti i suoi sogni, affermando che il desiderio dei suoi genitori era più importante di qualsiasi altra cosa.

Be' proprio non la capivo: perché abbandonare tutti i suoi desideri per uno stupido bar minuscolo che pure odiava?

«Che cosa mi stavi dicendo?» si asciugò il sudore dalla fronte.

«Ti stavo dicendo che mi hanno licenziata.»

«Come?! E perché?»

In effetti io non me la passavo meglio di lei: all'età di ventidue anni mi ritrovavo senza prospettive future, senza un soldo e adesso anche senza un lavoro!

A casa vivevo con mia madre e con mio fratello gemello Ethan che a causa di un'incidente doveva stare a letto senza possibilità di muoversi per almeno tre mesi.

Grandioso!

Non vivevamo certo nell'oro e quindi risultava difficile arrivare a fine mese e spesso mia madre doveva fare i doppi turni in fabbrica.

D'altro canto, a me non era mai importato nulla di andare all'università e perciò adesso avevamo qualcosa in meno da pagare, oltre alle innumerevoli medicine che dovevo comprare ad Ethan e che costavano un sacco.

«Forse ho esagerato nel rispondere a un tizio che mi insultava» mi passai una mano fra i boccoli.

«Che gli hai detto?»

«L'ho mandato a quel paese... ma a mia discolpa posso dire che quello ha usato parole molto più offensive.»

Non stavo dicendo una bugia: lavoravo in un ristorante nei pressi del palazzo reale ed era arrivato un tizio che sembrava essere un nobile e poiché mi ero dimenticata di portargli un tovagliolo, mi aveva urlato in faccia delle parole non molto lusinghiere e mi aveva minacciata. A quel punto non ci vidi più e litigammo. Più tardi il capo lo aveva accompagnato nel proprio studio e l'uomo doveva avergli detto qualcosa perché tornò bianco come un fantasma e mi licenziò seduta stante. Non aveva ammesso repliche e me ne ero dovuta andare nel bel mezzo della sala.

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