Capitolo XIII - Nicodemo (passato)

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Erano passati tre anni da quando Nicodemo aveva conosciuto Ka Rhana.

Era una piacevole mattina di inizio estate, le acque del Lisarno scorrevano placide e verdi nell'ansa sotto i boschi del colle di Mesamena, i papaveri punteggiavano di rosso i campi imbionditi, lui fissava il loro lento ondeggiare nella lieve brezza portata dal fiume e attendeva la morte.

Le mosche ronzavano intorno alla ferita al fianco, il caldo nido in cui avrebbero deposto le loro uova per fare di lui, nei giorni a venire, un sacco rigonfio di vermi. Non che la cosa a quel punto l'avrebbe più riguardato, ma non gli piaceva l'idea di gonfiare e marcire lì sotto il sole assieme agli altri che con lui erano caduti nello scontro. Il bastardo che gli aveva staccato quasi di netto metà della mano destra e praticato quel brutto buco nella pancia era steso tra l'erba come lui. Sotto di lui, per la precisione. Dopo averlo sbudellato gli era franato addosso e ora il suo culo premeva su quella stupida faccia da maiale. Era scomodo, ma anche dannatamente gratificante sapere che il bastardo che l'aveva condannato era morto con il suo culo spalmato sulla faccia. Trarre conforto da quella grama soddisfazione era così patetico e insieme così assurdo che gli affiorò una smorfia divertita. Fu allora che la vide per la prima volta.

«Cos'hai da ridere?» gli domandò comparendo nel suo campo visivo. Un ovale pallido con occhi grandi e un morbido sorriso di curiosità, come se l'essere accovacciata su un prato cosparso di cadaveri non le recasse il minimo disturbo.

«Sai che stai per morire?» la domanda era retorica, ma a Nicodemo andava bene così. Almeno l'ultima persona che avrebbe visto sarebbe stata quella bella fanciulla e non "faccia da maiale".

La vide voltarsi e chiamare qualcuno poi tornare a guardarlo mentre una figura compariva alle sue spalle.

«Che ne dite Maestro? Potrebbe andar bene. È anche bello.»

«Sì, se non muore da qui al laboratorio può essere un buon soggetto. Non è troppo malconcio.»

«Lasciamo quello con la gamba maciullata e prendiamo questo?»

«No, li prendiamo entrambi.»

Per Nicodemo quel discorrere non aveva senso e non gli importava nemmeno comprenderlo. Era stanco e voleva solo chiudere gli occhi: che quei due facessero di lui quello che volevano, a lui non interessava.


Al suo risveglio si trovò steso sotto una bassa volta di mattoni. Niente più cielo, niente più papaveri. La fioca luce di una lanterna faceva tremolare le ombre e l'odore dolciastro di decomposizione aleggiava nell'aria assieme a quello metallico del sangue. Volse lo sguardo alla sua destra scoprendo che Alcide era sdraiato di fianco a lui, nudo come un verme, legato a un tavolaccio da macellaio con robuste cinghie di cuoio, cosa che gli fece realizzare che anche lui si trovava nella medesima condizione.

Qualcuno aveva ricucito la gamba di Alcide con spesso filo nero come se quell'informe insaccato sanguinolento potesse essere ancora utilizzato. In fondo a tutta quella carne martoriata il piede penzolava in una posizione innaturale: non sembrava esserci più niente a sostenerlo. Questo lo portò a domandarsi cosa avessero fatto a lui. Non riusciva a vedersi, ma considerò che l'assenza di dolore fosse da considerare un buon segno.

Volse lo sguardo verso sinistra e sentì le viscere accartocciarsi. Sul tavolo vicino qualcuno aveva completamente scuoiato un uomo.

Un lamento ruppe il silenzio del freddo scantinato e solo dopo Nicodemo si rese conto di essere stato lui a dargli fiato.

«Sembra che qualcuno si sia svegliato» disse una voce innaturalmente tranquilla. Ci fu un movimento e nuovamente nel suo campo visivo comparve la fanciulla. Il contrasto tra il bel viso e il camice lordo di sangue portò la sanità mentale di Nicodemo a prolungare la sua passeggiata sull'orlo del baratro della follia.

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