Capitolo XXXV

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Seduto nel suo studio, Learco osservava assorto il pulviscolo danzare nella luce del sole che entrava dalla finestra. Posati davanti a lui, sul tavolo, gli appunti che aveva preso dopo aver esaminato il corpo di Lor Kon. Nelle orecchie ancora il resoconto di uno dei soldati che aveva assistito alla morte di Nicodemo di Cafria.

Nella disamina del cadavere del gigante era rimasto colpito dai progressi fatti da Asmodeo negli ultimi dodici anni, l'aberrante abilità con cui aveva innestato nel corpo di un solo uomo la muscolatura di tre uomini e rinforzato tutto l'apparato scheletrico con strisce di rame avvitate sulle ossa soggette a maggiore sforzo per quell'aumentata potenza. Quando aveva esaminato i resti parzialmente bruciati del corpo della mostruosa donna trovata nelle catacombe di Fleia, la qualità degli innesti era molto più grossolana, lontanissima dal raffinato orrore che era stato capace di realizzare con Lor Kon.

Eppure nelle parole colme di superstizione dei testimoni della morte di Nicodemo di Cafria si nascondeva un orrore ancora più grande. Qualcosa a cui la sua vecchia mente stanca si rifiutava pervicacemente di dare una forma. Giungere a un pensiero compiuto, a una spiegazione, dare fiato e voce a quello che si agitava nella sua mente avrebbe fatto vacillare il raziocinio di molti uomini.

Stando al resoconto dei presenti l'uomo era morto per una cancrena fulminante che gli aveva preso mano e ventre. I soldati che lo stavano cercando riferivano di averlo trovato a meno di venti metri da un vecchio fienile, richiamati dalle sue urla. A quanto pareva, Nicodemo aveva provato a fuggire dal fienile, cosa impossibile per un uomo con una cancrena così avanzata, anzi, vista la descrizione dello stato dell'infezione era impossibile che in quello stato Nicodemo fosse riuscito a sfuggire alla cattura per giorni. Probabilmente era impossibile che fosse anche solo riuscito a camminare.

Gli uomini avevano aggiunto che avevano visto la mano cambiare colore, dal viola al nero, la vecchia cicatrice suppurare, il ventre gonfiare, necrotizzarsi, fino a marcire. Anche questo assolutamente impossibile visto che per un simile processo occorrevano come minimo ore. O era stato tutto frutto della loro immaginazione, cosa che comunque non spiegava come un uomo debilitato da una simile infezione avesse potuto provare a fuggire, oppure lo avevano visto veramente accadere. Nicodemo di Cafria era passato da essere un uomo sano ad essere un uomo morto in una manciata di minuti, divorato da un'infezione dilagata come un incendio. Era come se le vecchie ferite non fossero mai state guarite, come se qualcuno avesse sigillato il loro carico di morte e l'avesse sospeso, congelato, salvo poi liberarlo improvvisamente.

Fino a quel momento aveva pensato che Asmodeo avesse trovato un modo di integrare con l'alchimia interventi di medicina per cucire assieme parti di corpi estranei tra loro, ma quello che era accaduto a Nicodemo sembrava indicare qualcosa di profondamente diverso. Di ancora più nefasto. Asmodeo non guariva le ferite. Con i suoi interventi innestava arti e organi, integrava i corpi con le parti mancanti, aggiungeva muscoli e ossa e poi, sempre con l'alchimia, interrompeva il decorso delle infezioni che questo provocava nelle sue creazioni. In qualche modo doveva essere riuscito a usare la loro forza vitale per bloccare la morte che le ferite e gli interventi subiti avrebbero portato loro. Il sistema così però non era equilibrato, l'alchimia era una disciplina esatta che non consentiva squilibri tra gli elementi, una forza vitale doveva essere integra per poter sostenere la delicata struttura della vita, se qualcosa veniva consumato qualcos'altro doveva sopperire alla mancanza. Asmodeo doveva aver introdotto un elemento esterno, qualcosa che copriva l'ammanco.

Learco chiuse gli occhi stanco e si passò la mano sulla faccia. Non voleva andare oltre, non voleva scoprire come Asmodeo avesse sopperito all'ammanco, ma così come non era stato in grado di fermare la sua mente dal ricostruire e analizzare i fatti, sapeva che non sarebbe riuscito a fermarsi fino a quando non avesse trovato la risposta.

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