Capitolo XX - Hie Rhana

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Abbracciata dal fiume ghiacciato, la mole nera del rudere del vecchio mulino sembrava volersi opporre con la sua greve solidità all'etereo lucore delle stelle e del primo quarto di luna che si riflettevano sul bianco manto della neve.

Hie Rhana uscì dall'ombra degli alberi, si guardò attorno circospetta e varcò la bocca di tenebre che portava all'interno dell'edificio, subito aggredita dall'odore di legno marcio e feci di topo. Strinse gli occhi per distinguere i contorni della vecchia macina che dominava l'ampio locale d'ingresso e individuare lo stretto passaggio tra le macerie che conduceva alla scala verso il sotterraneo. Liscia e fredda come una lama premuta sul collo, una mano le serrò la bocca.

«Sei morta» disse una voce vellutata prima di rompersi in una risata chiocciante.

«Smettila con questo gioco, dannato pipistrello!» ringhiò Hie Rhana scrollandosi di dosso il suo aggressore.

«Mi annoio» ridacchiò ancora la voce flautata. «Inoltre almeno tu, Hie Rhana, potresti provare per una volta a non farti sorprendere. È così noioso uccidere senza il brivido della lotta o almeno un minimo di resistenza.»

Il volto emaciato di Sisifo comparve e tornò a sprofondare nell'oscurità da cui era emerso, mostrando le due cicatrici incavate ove avrebbero dovuto esserci degli occhi.

«Lui è qui?» lo ignorò Hie Rhana guardando verso le tenebre dove era scomparso.

«Dove guardi?» ridacchiò la voce nuovamente alle sue spalle.

Il movimento di Hie Rhana fu fulmineo, la mano penetrò l'oscurità, si serrò ferrea sulla gola molliccia e affondò le dita nella carne.

«Sei morto» disse con un ghigno crudele prima di scagliarlo all'indietro, contro la parete.

Ci fu un tonfo, un gorgoglio e poi una risatina acuta spezzata da qualche colpo di tosse. «Sì, Lui è qui. Sta lavorando con l'angioletto portato da Nicodemo.»

Hie Rhana non commentò l'implicita informazione che il ragazzino portato da lei fosse stato scartato. Si volse verso le scale e scese al piano disotto.

L'aria gelida del sotterraneo penetrava nelle ossa così come l'odore acre dei composti alchemici feriva le narici. Oltre un'apertura irregolare la luce incerta di una lanterna spandeva ombre allungate sulle pareti. I lamenti fievoli di una voce infantile, persa negli incubi indotti dai sedativi, si mescolavano all'antica lingua dell'alchimia, mormorata dalla voce matura e bassa del Maestro.

«Avvicinati Hie Rhana» disse quella voce interrompendo la litania che stava recitando.

Vide l'ombra del Maestro levarsi alta sulla parete e per un attimo fu certa che sarebbe stata capace di continuare a crescere fino a inghiottire ogni traccia di luce.

Con le gambe pesanti, il respiro corto e lo stomaco annodato varcò l'ingresso del laboratorio, disprezzandosi per il timore che le instillava il semplice pensiero di trovarsi al suo cospetto. Si ripeté che era solo venuta a sottolineare gli errori di Ka Rhana. Non era lei ad aver sbagliato, non quella volta, ma il solo ricordo di cosa era successo l'ultima volta che l'aveva deluso era sufficiente a farla sudare freddo.

Il Maestro, col camice bianco e la maschera nera che usava per lavorare alle sue creazioni, era chino sulla sua opera: una ragazzetta, poco più che una bambina, giaceva stesa sul tavolo completamente coperta di simboli alchemici vergati di bianco, nero e rosso sulla pelle. Il viso era rigato di lacrime e di sangue rappreso, le palpebre chiuse e gonfie.

«Il bambino che hai portato non è sopravvissuto all'integrazione degli arti come molti dei precedenti esperimenti» disse Asmodeo togliendosi la maschera dal lungo naso adunco. «Con buona pace del comune concetto di sesso forte, i maschi sopravvivono più difficilmente agli interventi complessi, ma ho comunque potuto usarlo per provare qualcosa di nuovo prima che spirasse.»

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