Ciò che stai per fare non dirlo

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Era un giorno di maggio, la scuola non era ancora finita e sinceramente non mi interessava molto dello studio che avrei ipoteticamente dovuto affrontare anziché girovagare per strade sconosciute al mio occhio ancora ingenuo. Non sapevo dove fossi, ma sapevo che era la strada giusta. Non volevo fare nulla, anzi a dire la verità per tutti i pensieri che in quel momento mi stavano passando per la testa avrei solo voluto urlare, o piangere, o entrambi, ma la mia faccia rimaneva impassibile. Pittaco diceva "Ciò che stai per fare non dirlo" e questa è stata la frase che ho sempre seguito nella mia vita, non ho mai espresso nulla agli altri, forse per paura, forse per disagio, non lo so, fatto sta che forse non lo dicevo perché anche io ero imprevedibile a me stessa. Ad un certo punto mi sono fermata e ho cominciato a guardarmi intorno, non ho visto assolutamente nulla se non prati verdi e alberi sparsi qua e là.

Non c'era nessuno.

Nessuno.

Mi sono seduta per terra, ho guardato che non stesse arrivando nessuno.

Nessuno.

Nessuno.

Continuavo a ripetermi.

Nessuno.

Nessuno.

Ho girato la testa rivolgendo il mio sguardo verso la distesa verde. Sono scoppiata a piangere.

Finalmente. Ho pianto tanto, sentivo di stare per rimettere tutto quello che avevo mangiato tre mesi prima. Urlavo. Piangevo. Urlavo. Singhiozzavo. Avrei voluto solo scomparire in quel momento, sbattere la testa e poter dormire, anche per un pochino di tempo. Urlavo. Piangevo. Urlavo. Singhiozzavo. Non ce la facevo più a rovinare tutto. Rovinavo la vita delle persone, rovinavo i miei genitori, mio fratello, i miei amici. Urlavo. Piangevo. Urlavo. Singhiozzavo.

"Perché sono così?" mi chiedevo. Perché sono così inutile? Perché sono così senza valore? Perché non riesco ad essere amata? Perché... urlavo. Piangevo. Urlavo. Singhiozzavo.

"tutto bene?"

Non potevo farmi vedere così, non potevo. Che potevo fare? Scappare? Nascondermi? Morire... non vedevo niente, le lacrime continuavano a scorrere e non riuscivo a fermarle. Ho intravisto una persona con addosso dei vestiti neri. Di nuovo quella domanda:

"tutto bene?"

Non rispondevo, non volevo rispondere, volevo solo sparire, ma non riuscivo neanche ad alzarmi. Ho sentito quella persona toccarmi il braccio e scuotermi leggermente. L' ho respinta. Ho sentito che continuava a provare ad avere un contatto fisico, sperando che mi calmasse, ma continuavo a respingerla fisicamente. Quella persona era una testa dura però, non la smetteva di provare.

"dai vieni con me, ti do un po' d'acqua."

Continuavo a scuotere la testa, senza smettere di singhiozzare. Non volevo alzarmi, non volevo calmarmi, volevo solo stare da sola. Quella persona allora, che dalla voce avevo intuito essere un uomo adulto, ha cominciato a intonare una canzone: "sei come il vento che gonfia le vele..." 

conoscevo quella canzone, me l'avevano fatta imparare al catechismo quand'ero piccola e anche se un po' stranita dalla scelta musicale, ho cominciato a cantarla avendo capito fosse una tecnica che avrebbe aiutato a calmarmi: "sei come l'aria che si respira libera..."

"bravissima" mi ha detto lui avvicinandosi a me e toccandomi il braccio con il palmo della mano, nonostante la mia difficoltà nell'avere il fiato per cantare, abbiamo continuato a intonare insieme: "chiara luce che il cammino indica...

Nella notte impenetrabile, ogni cosa è irraggiungibile..." lui continuava ad annuire e i miei occhi si erano schiariti a tal punto che riuscivo a intravedere che sorrideva: "non puoi scegliere la strada se non vedi davanti a te...

Le carte della vita: esiste conversione nella morte dell'anima?Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora