La sala d'attesa del reparto era degna dei migliori film horror. L'uomo dall'aria svogliata del banco informazioni aveva l'aspetto di uno di quei tatuatori da quattro soldi in grado di procurare un'infezione al solo tocco dell'ago sul primo millimetro di pelle. Capelli neri come il quadrante dell'orologio appeso sulla sua testa, lucidi e unti, raccolti in un codino spettinato, e una gomma in bocca che probabilmente stava masticando da ore, solcata dalle forme dei suoi denti annoiati, abituati a un sapore ormai svanito. Riusciva a rispondere in maniera sempre più sgarbata a ogni domanda posta dai parenti in attesa di notizie rassicuranti sullo stato di salute di chi si trovava dall'altro lato della porta.'Posso parlare con il medico?'
'Se suo figlio si trova in terapia intensiva cosa vuole sapere?'
'Posso portare da mangiare a mio marito? Non riesce a mangiare da solo.'
'Non legge l'orario? Le visite sono finite da tempo.'
Wow. L'empatia era il suo forte e non si era nemmeno reso conto che quell'orologio aveva smesso di ticchettare da ore. Persino quelle lancette si erano stancate di girare attorno a tanta insensibilità, mandando in arresto cardiaco il loro ingranaggio pulsante.
Dio. Mi sembravano passate ore quando finalmente vidi uscire le due figure che erano andate a fare visita a papà. Avevo tante domande. Troppe.
Si fermarono a poca distanza da me. Erano due ragazzi, probabilmente della mia età, ma non potevo dire altrettanto dell'altezza. Erano decisamente più alti.
Il primo che puntò gli occhi su di me, dai lineamenti occidentali, aveva un tatuaggio sul bicipite in tensione che si intravedeva dalla maglietta nera. I capelli scuri, che ricordavano il colore delle castagne, erano corti ai lati e ricadevano in un ciuffo solitario sugli occhi incappucciati dal taglio sensuale e predatorio. Accanto a lui non poteva esserci ragazzo più diverso. Era esotico, più magro e leggermente più slanciato del primo con un viso ambrato meno squadrato, incorniciato da lunghe trecce raccolte in una coda alta.
Entrambi mi guardarono come fossi un fantasma. Ero così disastrata?
Le persone attorno a me sfumarono, aspirate dall'anima di quell'orologio dall'ingranaggio deceduto, come geni malvagi imprigionati in una lampada d'ottone. Nasib, uscito anche lui da quella stanza, si affacciò come se stesse cercando qualcuno, creandosi un varco tra quegli osservatori silenti, e pregai che non fossero i miei occhi quelli che stava per incontrare.
Ma ogni speranza scomparve.
Vidi la sua cuffia girarsi verso di me. Avanzò con lo sguardo nascosto dietro il solito paio di occhiali protettivi, da cui scorsi una lacrima. L'unico tratto che mi confermò fosse un umano sotto quello specchio di riflessi sterili. E poi scandii tutto, come lenti fotogrammi assemblati in maniera distorta su di un pavimento impolverato.
Una gomma che batteva insistente sotto i denti di un custode annoiato.
E dei passi. Morbidi e solenni.
Poi il mondo si fermò.
Nessun ticchettio.
Nessun rumore, se non quello della paura, pronta ad esplodere in una voragine dalla porta scorrevole. Come il cratere di un vulcano appena destato.
Il ragazzo tatuato lo fermò con una delicatezza che non mi sarei mai aspettata da uno sconosciuto. Gli posò una mano sulla spalla di un camice fintamente bianco.
'Fidati di loro, qualsiasi cosa ti dicano.'
Ma io non volevo fidarmi. Volevo nascondermi in quella folla di palloncini. Ma il mio colore era troppo evidente, troppo acceso. Non volevo specchiarmi in quel viso che si faceva sempre più vicino, perché ad ogni suo passo sentivo avvicinarsi il gelo della morte. E quando lui fu davanti a me, in ginocchio, semplicemente mi guardò. E capii.
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꘡ᥨ کഠᥨ୧ ꘡ῃ۷ỉيỉⰓỉᥨ୧
Viễn tưởngDue filamenti di DNA, due trame dello stesso destino, intrecciate nella storia fino ad arrivare ai giorni nostri. O più precisamente, all'anno in cui Seth, il dio del deserto e del caos mi trovò. Questa è la mia maledizione. E quella di mio padre. S...