"il mondo adesso fa troppo rumore e io cerco il silenzio"
accelero ancora- HOLDEN
• GIULIA •
Era passato quasi un anno dal mio infortunio al polso, eppure ogni volta che mi ritrovavo di fronte agli attrezzi, sentivo ancora quel leggero tremore che mi attraversava la mano, un ricordo sgradito di un errore che non avrei mai dovuto commettere. Quel giorno eravamo a Bucarest per un collegiale, il primo vero test per capire se fossi davvero pronta a tornare in gara. Avevo passato mesi a prepararmi, a rimettermi in forma, a spingere il mio corpo fino al limite per assicurarmi che nulla potesse ostacolarmi. Eppure, nonostante tutto, la mia mente continuava a tornare a quel momento, a quella sfida che Carla mi aveva lanciato e che io, nella mia arroganza, avevo accettato.
Carla ed io eravamo sempre state le campionesse, le stelle della squadra. Da anni ci spingevamo l'una con l'altra, sempre alla ricerca di quel margine in più, di quella vittoria che avrebbe fatto la differenza. Ma quel giorno, a Bucarest, Carla aveva deciso di mettere alla prova la mia audacia in un modo che non avrei mai potuto immaginare. Mi aveva sfidato a fare un Thomas, un esercizio che era stato bandito dagli anni '80 per la sua pericolosità. Non avevo mai visto nessuna tentare un Thomas, e la sua proposta mi lasciò perplessa, ma anche intrigata.
"Giuro che se lo fai tu, lo faccio anche io," mi aveva detto, con quel sorriso sfidante che conoscevo fin troppo bene. C'era qualcosa nei suoi occhi, una scintilla che non mi piaceva, ma in quel momento non me ne preoccupai. L'orgoglio, quella maledetta voglia di dimostrare che potevo fare tutto, prese il sopravvento. "O hai paura?" aveva aggiunto, sapendo esattamente come pungolarmi.
Non potevo tirarmi indietro, non davanti a Carla e al resto della squadra. Era come se tutto il mio valore dipendesse da quell'unico momento, da quella sfida assurda che avrei dovuto rifiutare. E così, con una determinazione cieca, mi lanciai nell'esercizio. Sentii l'aria sibilare nelle orecchie mentre iniziavo la rotazione, il mondo intorno a me si offuscò, concentrato tutto in quel singolo movimento.
E poi, tutto crollò. Persi il controllo e mi schiantai sul materasso, ma non prima che il mio polso avesse preso l'intero peso della caduta. Il dolore fu immediato, lancinante. Mi accasciai a terra, trattenendo a stento le lacrime, mentre il mondo intorno a me sembrava oscillare.
Non ricordo molto di quello che accadde dopo, solo il volto di Carla, pallido e spaventato, che si chinava su di me. Ma non c'era niente che potesse fare, niente che potesse dire per cancellare il fatto che mi aveva spinta oltre il limite, che avevo commesso un errore irreparabile. Il resto della squadra si affrettò a chiamare l'allenatrice e, in poco tempo, mi ritrovai in ospedale, con un polso gonfio e livido che sembrava pulsare di dolore ad ogni battito del cuore.
Quella mattina, proprio come tante altre, era stata particolarmente intensa. Gli allenamenti erano duri, spietati, come se la neve che ci circondava richiedesse un ulteriore sacrificio per dimostrare il nostro valore. Eravamo fuori al freddo da ore, e ogni muscolo del mio corpo bruciava mentre spingevo me stessa oltre i miei limiti. Ma non mi lamentavo, nessuna di noi lo faceva. Sapevamo che era necessario, che ogni minuto di sofferenza avrebbe portato a una nuova forza, a una nuova abilità. E io, più di tutte, sentivo di avere qualcosa da dimostrare, a me stessa, alla mia squadra, e forse anche a Carla.
Tornando verso l'albergo, il gruppo di ragazze camminava insieme, con passi stanchi ma determinati. La neve scricchiolava sotto i nostri piedi, e il cielo sopra di noi era di un grigio opprimente, che rifletteva il nostro stato d'animo dopo quella mattinata di allenamento. Eppure, c'era qualcosa nell'aria, una tensione che si mescolava con il freddo, come se il giorno non fosse ancora finito, come se qualcosa stesse per accadere.
Passammo davanti al campo all'aperto dove i ragazzi stavano ancora allenandosi. Il suono dei loro passi veloci, delle grida di incoraggiamento e del respiro affannoso si mescolava con il vento. Mi ritrovai a rallentare il passo, il mio sguardo inevitabilmente attirato da una figura che si distingueva tra le altre. Joseph. Era lì, a petto nudo, il corpo coperto di sudore, con i capelli bagnati che gli ricadevano sulla fronte. I muscoli erano tesi, ben definiti, e ogni movimento sembrava emanare una forza che non riuscivo a ignorare.
Il cuore mi batté più forte nel petto, come se una fiamma invisibile fosse stata accesa dentro di me. Il suo sguardo si alzò verso di me, e per un attimo, i nostri occhi si incontrarono. Quel contatto visivo durò solo pochi istanti, ma fu sufficiente per farmi sentire come se il mondo intorno a noi fosse scomparso. C'era qualcosa di crudo, di intenso in quel momento, qualcosa che non riuscivo a spiegare ma che mi fece tremare leggermente, nonostante il freddo già pungente.
Era come se ci fosse una linea invisibile che ci collegava, un filo sottile fatto di sfida, di odio, forse anche di desiderio. Mi sentii come se fossi stata investita da un'ondata di calore, qualcosa di insopportabile e, allo stesso tempo, irresistibile. Eppure, non potevo permettermi di soffermarmi su quella sensazione. Non volevo ammettere a me stessa quello che stavo provando. E così, abbassai lo sguardo, cercando di nascondere l'agitazione che mi aveva travolto.
"Amò, chi stavi guardando? Mica Joseph?" La voce di Carola mi colpì come una secchiata d'acqua fredda, facendomi tornare bruscamente alla realtà. Mi girai verso di lei, cercando di mascherare il mio imbarazzo dietro un'espressione di irritazione.
"Ma che cazzo dici," risposi bruscamente, quasi troppo in fretta, cercando di allontanare ogni sospetto. Carola alzò le sopracciglia, il suo sguardo era malizioso, ma non insistette. Ero grata per questo, perché non avrei saputo cosa dire se avesse continuato a punzecchiarmi.
Le ragazze continuarono a camminare, e presto la conversazione si spostò su altri argomenti. Sara, come al solito, stava sbavando per Marco. La sua voce si alzava e si abbassava in un tono eccitato mentre raccontava ogni minimo dettaglio del loro ultimo incontro, dei messaggi che si erano scambiati, di come lui le aveva sorriso. Carola la ascoltava con una pazienza che non le era tipica, mentre io cercavo di mantenere la mia mente lontana da Joseph, lontana da quel fuoco che sentivo bruciare ancora dentro di me.
Ma, nonostante i miei sforzi, non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di lui, il suo sguardo che mi trapassava come se potesse vedere ogni singolo pensiero, ogni singola emozione che stavo cercando di nascondere. E mentre le ragazze continuavano a chiacchierare e ridere, io mi sentivo sempre più confusa, combattuta tra ciò che sapevo essere giusto e ciò che sentivo dentro di me.
Avrei dovuto odiarlo, come sempre. Avrei dovuto respingere ogni pensiero su di lui, ogni emozione che minacciava di farsi strada nel mio cuore. Eppure, quella sensazione di calore non mi lasciava in pace, un promemoria costante del fatto che, forse, qualcosa stava cambiando. Ma non ero pronta ad ammetterlo, non ancora.
Quella sera, quando finalmente ci ritirammo nelle nostre stanze, cercai di concentrarmi su tutto ciò che avevo davanti, sull'allenamento del giorno dopo, sulle mosse che avrei dovuto perfezionare. Ma nonostante tutti i miei sforzi, i pensieri continuavano a tornare a Joseph, a quel momento, a quella sensazione di fuoco che non riuscivo a spegnere.
E così, con il cuore ancora in tumulto e la mente piena di dubbi, chiusi gli occhi , sperando che il sonno potesse finalmente darmi un po' di pace. Ma sapevo che non sarebbe stato così semplice, non con quella fiamma che bruciava ancora dentro di me, pronta a riaccendersi al minimo segno di debolezza.
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𝓒𝓸𝓻𝓹𝓸 𝓛𝓲𝓫𝓮𝓻𝓸 || Joseph Carta
FanficDurante gli Europei di ginnastica artistica sulle alpi italiane, un gruppo di atlete adolescenti e una squadra di calcio si ritrovano nello stesso hotel isolato tra le montagne innevate. La tensione cresce quando una delle ginnaste più promettenti...