29 - In mare aperto

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"Mutano i cieli sotto i quali ti trovi, ma non la tua sitazione interiore poiché sono con te le cose da cui cerchi di fuggire."
-Seneca

All I Want - Kodaline

Axel

Il russare di Satoru è un suono costante, come un tamburo che batte sullo sfondo di un sonno che non arriva.
Sono steso nel sacco a pelo che continuo a fissare questo stramaledetto soffitto.

L'oscurità è densa, mi avvolge come una coperta fredda e l'unico calore che sento è quello delle immagini che mi bruciano nella mente come un incendio indomabile: Mary distesa in quella pozza di sangue, con gli occhi vuoti.

Non riesco a scacciare quell'immagine; non importa quanto mi sforzi, quanto cerchi di pensare ad altro.
Ogni volta che chiudo gli occhi, vedo il suo viso, il sangue.

Mi rigiro nel sacco a pelo con il cuore martellante, sbuffo e mi arrendo: non posso restare qui, intrappolato tra i miei pensieri e i suoni che quella sottospecie di ragazzo fa che mi tengono sveglio.

Con movimenti lenti, per non svegliarlo, sguscio fuori dal sacco a pelo.
La casa di Izumi è silenziosa, eccetto per quel maledetto russare, e i miei piedi nudi fanno rumore contro il pavimento di legno mentre mi muovo verso il salone.

Ho bisogno di qualcosa che mi anestetizzi, qualcosa che mi faccia smettere di pensare, anche solo per un po'.

Quando arrivo nella stanza, la penombra mi avvolge, ma riesco comunque a vedere la sua sagoma riccioluta.
È seduta sul divano, immobile come una statua scolpita nell'oscurità.
Tiene in mano una bottiglia di gin che si illumina sotto la luce del lampione fuori dalla finestra, il tappo ancora avvitato.
Sembra che stia combattendo con se stessa, indecisa se bere o no.

Mi fermo sulla soglia, guardandola per un attimo; non ci siamo più scambiati neanche una parola da quando siamo usciti da quella casa, continuava a stare con il viso basso e in religioso silenzio e io non ho avuto il coraggio di dirle qualcosa.

Non sono sicuro se disturbarla o lasciarla sola con i suoi pensieri, ma poi decido che forse possiamo fare meglio di così.

Prendo due bicchieri dalla credenza e vado a sedermi accanto a lei senza dire una parola. Il cuscino si affloscia sotto il mio peso, ma Leila non si muove, i suoi occhi sono fissi sulla bottiglia come se ne fosse ipnotizzata.

«Ne versi un po'?» le chiedo con la voce più roca di quanto mi aspettassi.

Lei annuisce, quasi impercettibilmente, e finalmente svita il tappo.
Il suono del liquido che scorre nei bicchiere è quasi confortante, un rumore familiare in una notte che non ha più nulla di normale.

Ne prendo uno e lo porto alle labbra, il gin inizia a bruciarmi la gola ma è esattamente quello che volevo; un fuoco che si accende dentro, diverso da quello che mi tormenta la mente.

Entrambi buttiamo giù quel liquido e mi viene in mente quella sera, quando mi chiese perché la gente beveva l'alcol nonostante il gusto orribile.

Ne versa ancora e continuiamo a bere in silenzio, incapaci di dire qualcosa.

«Mary era come una madre per me» dico all'improvviso, senza neanche sapere perché.
Forse è il gin, forse è l'oscurità che mi spinge a parlare, a condividere un dolore che non posso più tenere dentro.

Jaguar - Il male è dietro l'angoloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora