Seraphine's POV
"Le esperienze che ci scuotono, ci cambiano in modi che non possiamo sempre comprendere subito." — Harville Hendrix
La serata al bar mi aveva lasciata con una sensazione di confusione e eccitazione, un miscuglio di emozioni che non riuscivo a decifrare. Tornai in albergo e, senza nemmeno togliermi i vestiti, crollai sul letto, esausta. Il sonno arrivò presto e profondamente, un rifugio temporaneo dalla realtà che stavo cercando di comprendere. I miei sogni furono pieni di volti sconosciuti e di sguardi che sembravano voler comunicare qualcosa, ma al risveglio non riuscivo a ricordare nulla di chiaro.
Il giorno successivo, la scuola sembrava scorrere come al solito, con la stessa routine di sempre, ma il ricordo della sera precedente continuava a tornarmi in mente. Era come se qualcosa di irrisolto fosse rimasto sospeso nell'aria, e non riuscivo a scrollarmelo di dosso.
Durante una pausa tra le lezioni, decisi di prendere un caffè al distributore automatico nel corridoio. Avevo bisogno di qualcosa di caldo, di familiare, che mi riportasse a una sorta di normalità. Con la tazza in mano, camminavo distrattamente, cercando un angolo tranquillo dove sedermi e rilassarmi un attimo. Avevo la mente altrove, persa nei miei pensieri, quando improvvisamente qualcuno mi urtò.
Il caffè volò in aria, e prima che potessi fare qualsiasi cosa per evitarlo, si rovesciò addosso a un ragazzo che stava passando. La sua camicia bianca si macchiò immediatamente di marrone scuro, e lui si girò con un'espressione di sorpresa e irritazione. Il calore del caffè sembrava non averlo ferito, ma il disordine che avevo creato era evidente.
«Accidenti!» esclamai, sentendo un'ondata di imbarazzo travolgermi. «Mi dispiace tantissimo!»
Il ragazzo, con i capelli biondi spettinati e un'espressione chiaramente seccata, mi guardò mentre cercava di asciugarsi. I suoi occhi brillavano di una luce fredda e ironica, e sembrava valutare se arrabbiarsi o semplicemente ignorare la situazione. Alla fine, scelse una via di mezzo.
«Cazzo,» disse, con un tono brusco ma non eccessivamente aggressivo. Sembrava più infastidito dal fastidio del momento che arrabbiato con me.
«Non so come sia successo,» balbettai, cercando di trovare le parole giuste. «Posso fare qualcosa?»
Il ragazzo sembrò considerare la mia offerta per un attimo, poi disse, con una calma quasi surreale: «Puoi andare a prendere un'altra camicia nel mio armadietto, è quello vicino alla palestra. Il codice è 1919. Ti aspetto in bagno.»
Esitai un istante, sorpresa dalla sua richiesta. «Non posso entrare nel bagno dei ragazzi,» dissi, cercando di mantenere una certa compostezza nonostante la strana piega che stava prendendo la conversazione.
Lui sorrise, un sorriso un po' beffardo ma non del tutto sgradevole. «No, infatti,» rispose, «ti aspetto in quello delle ragazze.»
Rimasi senza parole per un attimo, incapace di capire se stesse scherzando o se fosse serio. La mia mente era in tilt. Davvero mi aveva appena detto di raggiungerlo nel bagno delle ragazze? Che tipo di ragazzo chiederebbe una cosa del genere? Eppure, la sicurezza con cui aveva parlato mi aveva lasciata disarmata. Non sembrava minimamente imbarazzato dalla sua stessa richiesta, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Avrei dovuto dirgli di no, forse. Sarebbe stata la risposta logica, ma qualcosa nel suo tono mi aveva spinta a seguire il gioco. Era solo una camicia, dopo tutto, niente di più. O almeno, così cercai di convincermi mentre mi dirigevo verso l'armadietto che mi aveva indicato.
Quando arrivai davanti all'armadietto, inserii il codice che mi aveva dato: 1919. La porta si aprì con un leggero cigolio, rivelando una camicia pulita piegata con cura. Accanto alla camicia, notai una foto di due bambini piccoli. Uno dei bambini sembrava proprio lui, il ragazzo che mi aveva mandato lì. Chiusi l'armadietto velocemente, cercando di non riflettere troppo su quello che avevo visto. Presi la camicia e mi avviai verso il bagno delle ragazze, il cuore che mi batteva più forte del solito.
Quando entrai nel bagno, lo trovai già lì ad aspettarmi, con il petto nudo e la camicia bagnata appesa al lavandino. La vista dei suoi pettorali ben definiti mi colpì inaspettatamente, e non potei fare a meno di arrossire. Cercai di distogliere lo sguardo, ma fu più difficile di quanto avessi pensato.
«Grazie,» disse lui, notando il mio imbarazzo con un sorriso divertito.
Gli passai la camicia, cercando di ricompormi. «Prego,» risposi rapidamente. «Mi dispiace davvero per l'incidente del caffè. Non volevo causarti problemi.»
Lui fece un gesto con la mano, come per minimizzare la cosa. «Non preoccuparti,» disse, mentre si infilava la camicia pulita con movimenti fluidi. «Mi chiamo Adrian, comunque. E tu?»
«Seraphine,» risposi, ancora un po' imbarazzata.
«Beh, spero che la tua giornata migliori. Magari ci vediamo di nuovo in giro.»
Con un ultimo sorriso, Adrian uscì dal bagno, lasciandomi sola a raccogliere i miei pensieri. Presi la camicia sporca appesa al lavandino, indecisa su cosa farne. Dovevo lavarla, restituirgliela pulita. La infilai nella mia borsa, cercando di non fare troppo rumore, come se qualcuno potesse vedermi.
Rimasi lì per un momento, cercando di capire cosa fosse appena successo. Non potevo credere di essere stata così sbadata da rovesciare del caffè addosso a qualcuno, e tanto meno potevo credere che tutto si fosse risolto in modo così strano.
Quando tornai in aula, cercai di concentrarmi sulla lezione, ma la mia mente era ancora distratta. Non riuscivo a smettere di pensare a quell'incontro surreale e alla disinvoltura con cui Adrian aveva gestito tutto. C'era qualcosa in lui, qualcosa di misterioso e intrigante, che non riuscivo a togliere dalla testa.
Ma forse era solo un altro frammento di questa nuova vita, un enigma che avrei dovuto risolvere un po' alla volta.
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NOTHING
RomanceChi mai chiamerebbe un locale a Los Angeles, "Los Angeles"? E soprattutto, chi sono questi cosiddetti "angeli"? Gli angeli di Los Angeles non hanno nulla di divino. Sono i fratelli White: Asher e Adrian, insieme a Raven, una ragazza priva di sentime...