13. Big Apple

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Anche se avevo già visitato New York ancora mi stupisco che la grande quantità di taxi in giro e l'enormità dei palazzi facciano impressione solo se ci fai caso.

Appena trovo il mio primo taxi la destinazione che dò all'autista col turbante è direttamente alla Columbia Law School; devo cercare di avere qualche indicazione sugli alloggiamenti degli studenti nel campus.

Innanzitutto noto che ci vorrebbe un monopattino per coprire le distanze enormi fra un edificio e l'altro, e la segreteria degli studenti non è la stessa che si occupa degli stranieri e mi rimandano da un ufficio all'altro fino al building successivo. Il caldo di Milano mi ha seguito, forse considerando che sono alla latitudine di Napoli mi rendo conto che le temperature non possono essere diverse, con l'aggravante dei palazzi enormi che bloccano ogni refolo d'aria.

Una mattina intera, fra file di giapponesi in gita che si snodano sui marciapiedi, giocolieri in mezzo alla strada, baracchini di cibo agli angoli, un continuo rumoreggiare di auto e persone, ma finalmente riesco ad avere le informazioni che mi servono. Il mio inglese si fa sempre meno spigoloso, man mano che mi tornano in mente forme verbali e accenti che avevo acquisito l'altra volta che sono stato da queste parti, in una situazione non proprio rilassante.

Quando ero infiltrato mi avevano mandato in Usa perché ero uno dei pochi con il passaporto a posto. Dovevo presentarmi da una famosa famiglia di italoamericani che cercavano un punto di appoggio a Palermo per aprire una loro attività, ovviamente di import-export. La mia missione era ufficialmente di prendere e dare delle informazioni per facilitare la cosa, mentre in realtà mi era stato caldamente ribadito che li avrei dovuto categoricamente sconsigliare.

Ero andato a trovarli in zona little Italy, il vecchio quartiere ormai ridotto al minimo in piena isola di Manhattan, dove mi ospitarono in una casa che dall'esterno non diceva niente, ma all'interno aveva una sala enorme con un lungo tavolo da cinque metri pieno di donut e succhi di frutta come se fosse una conferenza della Microsoft.

La cosa interessante di quel giorno era stata che prima della riunione il mio compagno di viaggio, Tano, aveva detto:
- Prima di farci vedere andiamo a trovare qualcosa da indossare.

Eravamo arrivati presto, ma la riunione era per la mattinata, non mi sembrava fosse il caso di perdere tempo a cambiarsi di vestito. Ma lo seguii.

Attaccato alla vecchia Little Italy c'è una China Town molto più in rigogliosa crescita. Tano aveva dato al tassista un indirizzo nella zona di confine, con negozi italiani e cinesi che si fronteggiavano.
A piedi si diresse con sicurezza a sud, verso la zona cinese, finché dopo un paio di isolati ci inoltrammo in un vicolo. In fondo c'era una grata di metallo con una porta lucchettata, ma lui spinse con la spalla tutta la parete e passammo rimettendola a posto.

Nel cortile interno c'erano una dozzina di bancarelle fra cui individuò l'unica con proprietario non cinese:
- Voscenza, tanti saluti da Palermo - disse al tipo dietro il banco in italiano, anzi con forte accento dialettale.

L'uomo alzò il mento leggermente, in cenno di riconoscimento o saluto o quello che era. Insomma non ci avrebbe sparato, visto che quando ci eravamo avvicinati aveva impugnato una Beretta e la teneva a fianco della gamba, non minacciosa ma neanche invisibile. Poi grugnì qualcosa in una frequenza che non ero capace di udire.

- Ci serve qualcosa giusto per non andare in giro nudi - fece Tano, in inglese questa volta.
L'altro ci guardò, posò la sua Beretta sul banco davanti a lui e poi aprì un coperchio delle casse che aveva davanti.

Tano pescò una Walter PPK, il tipo usato dall'ispettore Derrick, la polizia tedesca. Stavo per scegliere anch'io, ma lui rapidamente chiuse il coperchio e ne aprì un altro, guardandomi senza fiatare: aveva aperto un altro cassetto con dei revolver che io preferivo di gran lunga rispetto alle automatiche e sorridendogli tirai su una piccola Smith&Wesson.

Evidentemente il tipo sapeva il fatto suo e si era guadagnato le banconote che Tano gli passava in cambio anche di due sacchetti trasparenti di munizioni sciolte.

È vero che sono in una missione più legale, ora, ma non c'è stato tempo di fare scartoffie per poter portare la mia arma. Però al momento la priorità è trovare il posto dove dorme il figlio del Visconti.

Prendo al volo un hot dog da un carrello all'angolo della strada e attraverso l'isolato che va verso Central Park. Il campus è distribuito su diversi edifici, ci metto un po' di tempo e di chilometri a piedi per trovare quello giusto. Non c'è portineria, ma un enorme ingresso con centinaia di caselle postali e diversi ascensori.

Faccio un giro veloce delle caselle, trovo quella del ragazzo vuota, infilo un foglio piegato, poi salgo su alla ricerca della sua stanza. Nell'area di ingresso davanti all'ascensore ci sono tre ragazzi che giocano seduti ad un tavolo, a carte.
Vado per la stanza che è sul corridoio, busso, aspetto. Vorrei provare a forzare la porta, ma due di loro mi stanno guardando. Vado dall'altra parte del corridoio, ma la porta dell'ascensore è danneggiata e mi tocca tornare indietro.

Mi fermo in un 7eleven che ha le vetrine sul campus, prendo su una bottiglia di rum e alcune barrette energetiche, più che altro per perdere tempo e osservo l'ingresso del palazzo. Troppi studenti entrano ed escono, non credo di ottenere molto a star qua.
Esco, afferro un taxi e gli do un indirizzo preciso.

Più tardi arrivo a Brooklyn, proprio sotto il Manhattan Bridge e da lì faccio la passeggiata sul lungo mare, dove intravedo l'altro ponte, l'omonimo del sobborgo. In quello spazio, chiamato Dumbo, c'è un ristorante in cui ero andato dieci anni prima e il tempo mi sembrava non fosse passato per loro.

Il cielo era ormai scuro, nonostante non fosse tardi e stavo guardando il menu quando un forte dejavù mi assale. Ma non è visivo, è un altro senso che lo scatena. Senza togliere gli occhi dal menu, sento al mio fianco fermarsi una persona e ne percepisco il corpo dentro un tailleur elegante, le gambe che si sfiorano mentre i tacchi minuscoli di due Louboutin picchettano sul pavet del marciapiede.

Respiro a fondo e capisco che anche lei ha respirato nello stesso momento e ne sento il sorriso e la sorpresa, ma silenziosa forse perché teme di esporsi e magari io non sono io.

D'altronde è assolutamente incredibile che ci ritroviamo davanti a Cecconi, a Brooklyn, come se il destino avesse tirato volontariamente le fila capricciose di due vita distanti e parallele.
- Ciao, Tina. Posso invitarti a cena?

Il patto del BorsalinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora